Sono arrivato a Torino in una mattina tiepida di novembre. Quella luce lattiginosa che sa già di inverno ma non ha ancora deciso di esserlo. Quest’anno sono stato fortunato: dormo al Boston Art Hotel, un posto che sembra uscito da un film di Jarmusch. Ogni stanza ha un artista, un segno, un colore. E fuori, Crocetta: il quartiere borghese, elegante, con gli alberi che ancora resistono al cambio stagione.
Si respira aria di pienone. Mi dicono che la città ha faticato a trovare camere per tutti: galleristi, curatori, collezionisti, giornalisti. Il solito carosello di taxi, badge, inviti e preview, ma con un’energia diversa, quasi febbrile. Artissima 2025 sembra più viva, più densa, come se il mercato e la ricerca avessero finalmente deciso di guardarsi senza sospetto.
Ma la vera forza di Torino, e di Artissima, non è mai stata la quantità. È il sistema. Quella parola che di solito fa sbadigliare, ma che qui prende forma, sostanza, respiro. Musei, fondazioni, fiere, residenze: tutto sembra intrecciarsi, riconoscersi, agire insieme. Non è una fiera isolata nel vuoto — è una macchina culturale che funziona perché dialoga.

176 gallerie, molte internazionali, ma la cifra resta quella: la ricerca. Quella cosa che a Basilea o a Parigi chiamano “experimental”, qui è semplicemente naturale. Torino non gioca a fare la capitale dell’arte, lo è quando serve, e il resto del tempo resta se stessa: elegante, testarda, sottilmente ironica.
È ancora presto per parlare di vendite e di mercato. Ho visto qualche bollino rosso sui muri degli stand, ma gli umori restano cauti. Si vende, sì, ma senza euforia. I galleristi parlano con voce bassa, quasi misurata. E in fondo è anche questo il fascino di Artissima: il fatto che, rispetto ai grandi colossi come Art Basel Paris o Frieze, qui i costi degli stand sono infinitamente più bassi, e con loro anche i prezzi delle opere. Una fiera che rimane umana, dove il rischio è calcolato e la ricerca può ancora permettersi di non essere travestita da investimento.
E mentre scrivo queste righe dalla hall del Boston, con un espresso che sa di stanchezza e euforia, penso che Artissima resta l’unico luogo in Italia dove la contemporaneità non è un’etichetta, ma una condizione. Una città intera che si muove come un corpo unico, con la fiera come cuore pulsante.





