Lo sapevate che nel 1994 il nostro Alighiero Boetti e l’ivoriano Frederic Bruly Bouabré dovevano realizzare un’opera a quattro mani in occasione della mostra Worlds Envisioned al Dia:Chelsea di New York? E che i due, dopo essersi conosciuti in Costa d’Avorio, si ritenevano praticamente “fratelli d’arte”? Probabilmente no. E non c’è niente di male, ovviamente. Ma la storia di questa mostra newyorchese, che metteva insieme le opere di un loartista italiano e di uno africano, la dice lunga su come il crescente successo, che l’arte africana contemporanea sta avendo nel mondo, sia un fenomeno che parte da lontano.
Almeno da quel discorso iniziato nel 1989 con Magiciens de la terre, la mostra, allestita al Centre Pompidou e a La Villette di Parigi, che per la prima vedeva accolti in un’istituzione occidentale 50 artisti africani (del terzo mondo li definiva la stampa dell’epoca) e 50 occidentali – tra i quali proprio Bouabré e Boetti. A distanza di 28 anni, quello che era un primo, flebile sussulto nel grande mare dell’arte – sempre letto in modo fin troppo occidentocentrico – sta diventando una grande onda da cui passa tutto il desiderio di riscossa di un continente.
Un’onda che da 13 anni cavalca con crescente passione Saverio Peruzzi, giovane collezionista aretino che ha messo insieme una raccolta di oltre 200 opere a firma di circa 30 artisti africani contemporanei che oggi impreziosiscono la sua abitazione che, presto, spera di far diventare una vera e propria casa-museo. Ma che già adesso permettono di comprendere quello che noi, in modo un po’ semplicistico, etichettiamo come arte africana, ma di cui non sempre cogliamo i confini.
Tutto inizia quasi per caso. «Era il 2005 – mi racconta durante il nostro incontro – e il Museo Pecci di Prato inaugurava la mostra Soly Cissé: Le monde perdu dedicata ai disegni dell’artista senegalese. Fu la prima scintilla e proprio andando in cerca di sue opere ho iniziato a girare tra Londra e Parigi; sono andato a vedere le grandi mostre organizzate in giro per l’Europa e così mi sono sempre più avvicinato e addentrato nella materia, iniziando a costruire quella che oggi è la mia collezione».
Peruzzi non ama troppo l’etichetta “arte contemporanea africana”. «Perché dobbiamo sempre sottolineare che sono artisti africani e non possiamo semplicemente parlare di artisti? – mi dice – Il fatto è che fino al 1989 il mondo si era quasi dimenticato di un continente. Come se 1 miliardo e 300 milioni di persone non fossero in grado di produrre arte. Un’aberrazione dal punto di vista culturale. E oggi il gap da colmare è enorme, perché il 1989, in termini di storia dell’arte, è l’altro ieri».
Già… il 1989, l’anno di Magiciens de la terre; un anno che fa da spartiacque in questa storia e che mette da una parte un mondo in cui la maggior parte delle persone, quando andava bene, era entrato in contatto più che altro con espressioni di tribalismo africano, quello che aveva tanto colpito Picasso come gli Espressionisti. E dall’altra un Occidente che, finalmente, vede gli artisti africani contemporanei accolti ufficialmente ed esposti vicino a nomi già universalmente riconosciuti dal grande pubblico dell’arte. Un capitolo del post-colonialismo tutto da scrivere e che la dice lunga sull’approccio sempre troppo occidentocentrico che abbiamo con l’arte.
«Qui – mi spiega Peruzzi mentre visitiamo la sua collezione – ci sono opere di Soly Cissé, che ha fatto la Biennale di Dakar o Africa Remix, la prima grande mostra itinerante al mondo di arte contemporanea africana. Un artista di Dakar che dipinge i suoi incubi, creando opere dove si intrecciano la modernità con i ricordi ancestrali dei suoi avi; oppure di Steve Bandoma, che ha esposto alla Fondation Cartier in occasione di Beauty Congo (2015)».
«Questo, invece, è Gonçalo Mabunda – mi dice mostrandomi una maschera fatta di proiettili -, è stato il primo al mondo a fare dei ready made con le armi da fuoco, quelle utilizzate durante la guerra civile che ha insanguinato per 10 anni il suo paese, il Mozambico. Una guerra tremenda che ha fatto 900.000 morti solo tra i civili. Pensa che Mabunda è stato ricevuto alla Casa Bianca da Bill Clinton e in Vaticano da Giovanni Paolo II».
Cissé, Bandoma, Mabunda e l’ivoriano Frederic Bruly Buoabré con il suo alfabeto Bété inventato nel 1950 che l’ha reso famoso in tutto il mondo e che da sempre è collezionato da François Pinault. Pensate che negli anni Novanta la Swatch gli ha addirittura dedicato uno dei suoi orologi, proprio come fece con Picasso. E poi i sudafricani Bruce Clarke e Esther Mahlangu che questa estate ha esposto al British Museum di Londra, in occasione della mostra South Africa. The Art of a Nation, una delle BMW che nel 1992, su richiesta della casa automobilistica tedesca, decorò con i suoi tipici motivi geometrici; l’ugandese Ismael Kateregga o Armand Boua della Costa d’Avorio che fa parte della scuderia della Saatchi Gallery.
C’è poi il ghanese Godfried Donkor, un dei primi africani a partecipare alla Biennale di Venezia (2001) e Edward Said Tingatinga, padre dell’omonima scuola artistica della Tanzania. Fino ad arrivare alla Scuola Popolare del Congo, uno dei primi esempi di “movimento” per quanto riguarda l’arte contemporanea africana la cui ricerca artistica si focalizza sulla “modernità” e rappresenta un gesto di rottura verso un passato in cui ogni forma di occidentalizzazione era bandita.
«Noi occidentali – precisa Saverio Peruzzi – siamo molto abituati ai movimenti, agli –ismi. La Scuola Popolare del Congo, che ha come “fondatori” Chéri Samba e Moke, che è morto nel 2001, e che annovera artisti come Chéri Cherin, Camille-Pierre Pambu Bodo e suo figlio Amani Bodo, è una corrente pittorica che per la prima volta è riconosciuta come tale». «Altrimenti – prosegue – ci troviamo quasi sempre di fronte a singole personalità artistiche non riconducibili a nessun tipo di corrente. E questo vale per gli artisti emergenti della Costa d’Avorio, come per nomi storici come Buoabré, Mabunda o Cissé. Non riesci ad inserirli in un filone preciso. E lo tesso vale per artisti emergenti come il fotografo Mário Macilau del Mozambico».
Ma di cosa parliamo, quando parliamo di arte contemporanea africana? «Chi si occupa di arte contemporanea africana di solito – mi spiega – si interessa a quegli artisti che vivono e lavorano nell’area sub-sahariana, quella più autentica e africana nel vero senso dell’espressione. Anche se è indubbio che dei contatti tra l’arte africana e quella occidentale ci sono stati anche in passato e così delle influenze. Diciamo che l’universo artistico di riferimento è quello indagato da Jean Pigozzi che è il più grande collezionista al mondo di arte contemporanea africana».
Opera dopo opera si compone davanti agli occhi una geografia artistica i cui nomi, solo adesso, stanno diventando lentamente più familiari, grazie alle prime aste di Bonhams e Sotheby’s, all’attenzione di Gallerie come Saatchi o Tornabuoni, e al successo di fiere come 1:54 Contemporary African Art Fair che da quest’anno arriva a 3 edizioni annuali. Possiamo così comprendere come in Africa l’arte contemporanea, così come la intendiamo noi, esiste già dagli anni Cinquanta solo che non la conoscevamo. Diventa ancor più chiaro, se necessario, come le condizioni economiche di una terra siano cruciali per la sua evoluzione culturale ed artistica. Oltre a sottolineare il ruolo fondamentale del web e dei nuovi mezzi di comunicazione, che hanno reso questa “scoperta” possibile.
«Questi sono tutti artisti che hanno già dei curricula importanti – mi dice Saverio Peruzzi – anche se non sono ancora noti al grande pubblico occidentale. E’ questa una cosa che a volte sfugge perché noi ci aspettiamo che siano passati dalle nostre istituzioni e ci dimentichiamo che l’Africa è un continente… 54 stati… un miliardo e 300 milioni di persone. Capisci? Stiamo parlando di un altro mondo». «E allora – prosegue – ti chiedi perché non costino milioni? Perché è Africa. E questo non vuol dire che non siano culturalmente o artisticamente all’altezza dei nostri artisti, ma solo che gli artisti africani, fino ad oggi, non erano presenti nelle dinamiche del mercato occidentale».
«In Africa – mi racconta – sono nati e stanno nascendo nuovi musei, nuove gallerie. Si sta creando un collezionismo più dinamico e importanti case d’asta stanno iniziando a stabilire qui sedi di rappresentanza. C’è un grande fermento». «In Marocco – prosegue – sta per essere inaugurato un museo importantissimo e a fine 2017 è nato lo Zeitz MOCAA – Museum of Contemporary Art Africa di Cape Town. Un progetto incredibile, che ha preso forma grazie alla collezione dell’ex Ad della Puma. Un museo degno di una grande capitale europea, con 120 mila metri quadri di superficie espositiva e la possibilità di organizzare 16 mostre temporanee allo stesso tempo. E tutto questo per l’arte contemporanea africana, una cosa che solo pochi anni fa sarebbe stata impossibile. Ma in Costa d’Avorio si ha una situazione simile, e anche il Senegal, il Marocco, l’Etiopia si stanno affacciando in modo prepotente sul mondo dell’arte. Sono tanti i paesi che si muovono in questa direzione».
Ma come orientarsi, allora, in questo “nuovo” mondo dell’arte? «Certamente studiando molto anche sui cataloghi delle mostre che negli ultimi anni sono state fatte in Europa e negli Stati Uniti – consiglia Peruzzi -, ma per prima cosa con un approccio professionale, affidandosi ad esperti che possano effettivamente dimostrare una conoscenza approfondita dell’arte contemporanea africana. Perché come hai visto… si fa presto a dire Africa».