Nonostante i beni culturali costituiscano un patrimonio della Nazione, riconosciuto a livello costituzionale (art. 9) e tutelato dal Codice dei Beni Culturali che ne regola la loro fruibilità e riproduzione, ancora oggi molti si stupiscono che tale patrimonio non possa essere utilizzato liberamente da chiunque ma che qualsiasi utilizzo, anche la sola riproduzione, sia sottoposta alla disciplina codicistica.
Normativa di recente non rispettata dallo stilista francese Jean Paul Gautier, che ha riprodotto la Nascita di Venere di Botticelli sulla sua capsule collection Le Musée senza chiedere il necessario consenso alla Galleria degli Uffizi che la conserva, così come dalla testata GQ del gruppo Conde Nast condannata per l’illecita riproduzione ed elaborazione del David di Michelangelo sulla propria copertina senza l’autorizzazione della Galleria dell’Accademia di Firenze; senza menzionare i numerosi casi in cui aziende, anche italiane, che operano nei più svariati settori riproducono, senza consenso, beni culturali e opere d’arte per promuovere i loro servizi o direttamente sui loro prodotti.
Naturalmente non sono solo opere emblematiche del patrimonio nazionale a fare gola alle imprese, anche le creazioni di artisti emergenti o meno noti finiscono nel mirino di chi (forse) manca di creatività quando si tratta di promuovere i propri prodotti o servizi.
È il caso del colosso cinese dell’ultra fast-fashion, Shein, che lo scorso luglio è finito nuovamente sotto accusa negli USA per aver violato i diritti di proprietà intellettuale di diversi artisti, riproducendone le opere su diversi propri capi di abbigliamento.
Secondo il quadro ricostruito da tre artisti che l’11 luglio scorso hanno promosso un’azione legale dinnanzi alla California Federal Court, le modalità con cui Shein individua e decide quali design realizzare avvengono tramite una sorta di web surfing posto in essere mediante un elaborato algoritmo che identifica i disegni e modelli che già hanno o che potrebbero avere successo sul mercato, mettendo così in vendita ogni giorno nuovi articoli, a prezzi talmente bassi da rendere i capi praticamente usa e getta, ma comunque appetibili, tanto che i clienti di Shein spulciano la sua app quotidianamente, come si trattasse di Tik Tok o Instagram; il tutto accompagnato da una sorta di “gioco delle tre carte” che Shein e le società ad essa collegate (Roadget Business e Zoetop Business Company) porrebbero in essere per eludere le conseguenze legali delle violazioni poste in essere.
Le accuse si fondano sul presupposto che dietro alla creatività di Shein non ci sia in realtà nessun estro creativo, se non quello di una tecnologia che, ispirandosi alla creatività di altri (se non addirittura appropriandosene totalmente, come nel caso in questione), crea migliaia di prodotti. I ricorrenti sostengono che pur nella totale segretezza circa l’algoritmo, vedendo i risultati concretizzarsi nella merce offerta sia palese che molti di tali prodotti della società cinese rappresentino l’esatta copia di quelli di altri designer.
Alla luce della ricostruzione prospettata, a detta dei ricorrenti emergerebbe che la politica su cui dal 2008 Shein si fonda e prospera abbia in passato da un lato beneficiato di alcune scappatoie commerciali e dall’altro posto in essere diverse violazioni, come evidenziato nell’Issue Brief predisposto dal gruppo di ricerca della U.S.-China Economic and Security Review Commission pubblicato lo scorso aprile e intitolato proprio “Shein, Temu, and Chinese e-Commerce: Data Risks, Sourcing Violations, and Trade Loopholes”[1].
Solo all’esito della controversia si potrà vagliare la fondatezza delle accuse promosse contro il colosso cinese dell’ultra fast-fashion.
Ciò che tuttavia emerge, più in generale, dal quadro prospettato è la spesso totale “ignoranza”, se non voluta inadempienza, di molte società (sia nazionali che estere) alla normativa prevista per i beni culturali e i diritti d’autore.
E se da un lato il progresso tecnologico rende molto semplice riutilizzare e scaricare le opere di terzi (siano esse il frutto di una professione o di un mero hobby) e sono rari i siti che a monte impediscono il download o lo screenshot di certe pagine – così come a nulla rileva che i siti web si impegnino a porre watermark o creative commons con condizioni piccole piccole che, come al solito, sono ignorate e accettate senza eccezioni – dall’altro lato però la tecnologia ha inciso nell’individuazione delle violazioni, semplificandola e rendendo molto più facile scovarle.
Si tratta di problemi complessi e strutturati, la cui risoluzione richiederebbero un approccio cauto, così da proteggere il proprio lavoro da un lato e per non ledere i diritti altrui dall’altro.
Per gli autori sarebbe importante evidenziare il più possibile l’originalità delle proprie opere e rivendicarne la paternità senza soccombere ad inutili lusinghe o compensi simbolici, dal momento che l’utilizzo non autorizzato delle loro creazioni è e rimane assolutamente illecito.
Mentre per gli utilizzatori che invece sfruttano strumenti di ricerca informatici, automatizzati e non, sarebbe opportuno partire dal presupposto che lo sfruttamento economico di qualsiasi cosa che si trovi online è fondamentalmente vietato e che qualunque possibile eccezione deve essere frutto di un’espressa autorizzazione del titolare del diritto. Già questi basilari accorgimenti – accompagnati da una maggiore attenzione già nelle scuole – potrebbero essere un presupposto virtuoso su cui basare ogni rapporto che lega creatività e imprenditoria, tenendo presente che qualsiasi licenza e concessione sarà poi da regolare puntualmente, anche tramite l’assistenza di legali, onde evitare l’instaurazione di spiacevoli controversie che implicano consistenti danni economici e d’immagine.
Articolo a cura di Gilberto Cavagna di Gualdana e Sofia Kaufmann
[1] Shein, Temu, and Chinese e-Commerce: Data Risks, Sourcing Violations, and Trade Loopholes (uscc.gov).