Photissima Art Fair è una fiera coraggiosa che non ama parlarsi addosso. Un coraggio che ha dimostrato non solo decidendo di dar vita ad una “doppia” edizione veneziana (Fiera + Festival) proprio nei giorni dell’inaugurazione della Biennale, ma anche nei temi da trattare negli incontri in programma nella sede che l’ha ospitata dal 29 maggio al 2 giugno (VEGA – Parco Scientifico Tecnologico di Venezia) e che hanno dato un contributo prezioso alla nascita di un collezionismo di fotografia che possa dirsi consapevole. Uno fra tutti quello dedicato al Plagio in Fotografia, tema delicato che ha sviscerato con maestria l’avvocato Massimo Stefanutti, esperto di Diritto della fotografia e della proprietà intellettuale, assieme a Michele Smargiassi, giornalista de La Repubblica, redattore del Blog Fotocrazia e autore di “Un’autentica bugia – La fotografia, il vero, il falso”; e a Guido Cecere, fotografo ed insegnante al Corso di Fotografia all’Accademia di Belle Arti a Venezia. Per approfondire il tema, Collezione da Tiffany ha raggiunto l’avvocato Stefanutti nel suo studio di Marghera per una chiacchierata decisamente illuminante…
Nicola Maggi: Avvocato, è possibile dare una definizione di “plagio”?
Massimo Stefanutti: «“Plagio” è un termine generalista, direi nazional-popolare o, senza offesa, di utilizzo giornalistico, che preso da solo non vuol dire assolutamente nulla. La sua specificazione deve essere il contesto “artistico-fattuale” nel quale opera, contesto che diventa ancora più importante di una ipotetica definizione del termine. Per il diritto (le c.d. legal norms), “plagio” non è una parola giuridica, in quanto nessuna norma – a mia conoscenza – cita, o meglio, definisce il “plagio”. Per cui il “plagio” è da considerarsi un concetto negativo, addirittura un concetto di “confine” che deve esser ricostruito partendo dai confini (incerti) che alcune norme ci danno».
N.M.: Chi sono i “soggetti” del “plagio”?
M.S.: «Essenzialmente tre ed esattamente l’autore primario, l’autore secondario e il fruitore, ai quali io aggiungerei la collettività. L’autore primario crea, immette in circuito, poi si accorge che qualcuno si è appropriato delle sue opere o delle sue idee ed ha delle reazioni, anche legali; l’autore secondario vede opere altrui, se ne appropria (altro termine che non ha una precisa definizione giuridica, nel settore specifico), le rielabora, crea un’opera (vicina o distante dalla precedente), subisce la reazione dell’autore primario. Infine c’è il fruitore, che spazia dal critico eccelso alla casalinga di Voghera».
N.M.: Che però non è detto sia in grado di capire che si trova di fronte ad un plagio…
M.S.: «Quello della riconoscibilità del plagio all’interno o all’esterno di un contesto è un tema delicatissimo perché quello che io riconosco qui come plagio, potrebbe non esser riconosciuto come tale fuori da questo ambito. Anche se poi non è facile cogliere la differenza (anche temporale) tra autore primario e autore secondario, e pure anche in noi stessi, intendo che la medesima persona può essere autore primario e autore secondario. E poi c’è la collettività, ingannata dall’autore secondario. Pensiamo all’appropriazione materiale dell’opera con la lesione del diritto morale di paternità: per esempio, prendo un fotomosaico di Maurizio Galimberti e ci metto il mio nome. Chi saprà di chi è tra 50 anni?»
N.M.: Ma allora da che parte dobbiamo guardare questo “plagio”: mi sembra di capire che ci sia un “plagio delle idee” e un “plagio delle opere”…
M.S.: «Certamente, ed anche un “plagio” all’interno del diritto, nelle legal norms, ed un plagio esterno al diritto, nelle social norms. Mi spiego meglio: io penso che le idee siano il motore del progresso dell’uomo e che, una volta espresse in qualche forma, sia essa l’arte o la letteratura, diventino “commons” e cioè patrimonio di tutti. Le opere, espressione di tali idee, sono tutelate dall’appropriazione da parte di terzi ma fino ad un certo punto: tutti gli ordinamenti giuridici prevedono la possibilità di utilizzare opere altrui (opere, non idee) per crearne di nuove. In Italia c’è l’art. 4 della Legge 633/1941 (quella sul diritto d’autore, ndr), negli Stati Uniti ci sono le norme sul cosiddetto “fair use”. Quest’ultime richiedono un’attività “trasformativa” perchè il nuovo prodotto sia lecito: occorre, però, anche sottolineare la profonda diversità dei sistemi giuridici italiani e americani. In Italia non può concettualmente esistere un sistema di “fair use” in quanto ci si incentra sulle eccezioni e sulle limitazioni alle norme sul diritto di autore. Se dobbiamo, per forza, dare qui una definizione di “plagio”, valida un po’ per tutto e che vada al di là della classica appropriazione della paternità dell’opera – che per me non è plagio ma lesione del diritto morale d’autore -, si può dire che consiste in una “forma di appropriazione degli elementi creativi di un’opera preesistente o di una parte di essa”».
N.M.: In fotografia come si considera questo “plagio”?
M.S.: «Nel nostro paesello, l’approccio giuridico alla fotografia, nella Legge 633/1941, è particolare. Innanzitutto va ricordato che la fotografia è stata assunta alla tutela – alla pari delle altre opere dell’ingegno – solo nel 1979 e che fino a quell’epoca la tutela era solo attraverso i cosiddetti diritti connessi. Attualmente, invece, vi è una ripartizione tra fotografia creativa, fotografia semplice e fotografia documentaria. I tre livelli si differenziano per l’esistenza (o meno) di una “creatività” all’interno dell’immagine fotografica. La creatività è un concetto giuridico molto complesso che ha avuto varie interpretazioni (novità – parziale o assoluta – originalità) e che oggi ha un contenuto abbastanza preciso, inteso come individualità della rappresentazione, come impronta personale dell’autore. E in fotografia, è un concetto pesante, proprio perchè, come sopra detto, la Legge sul diritto di autore prevede tre livelli di tutela».
N.M.: Ma come si fa a dire se una foto è o meno creativa?
M.S.: «Nell’interpretazione giurisprudenziale attuale non esistono, salvo qualche sporadico esempio, foto non creative: io che sono dalla parte dei fotografi, potrei dire che ogni prelievo della realtà è una scelta, è atto di creazione, di produzione individuale, con un’impronta personale, anche se inconscia; ogni scatto è atto fondante della creatività, così come ogni intervento o manipolazione su immagini altrui. Ma come faccio a “plagiare” la realtà? Posso riprodurla, come posso e come voglio, ed ogni riproduzione sarà diversa dalla precedente, magari di poco, ma lo sarà e magari l’intenzione è differente. Se riprendo due persone sotto un lungo porticato che si baciano e sono in prospettiva (è una famosa foto di Gianni Berengo Gardin) la mia è pur sempre una foto diversa, una diversa realtà, una diversa scelta, con una diversa ispirazione alla base. E’ sempre una creazione originaria. Ma se tutte le foto sono creative ci rendiamo conto che il plagio, in fotografia, non esiste? Mi rendo conto che un’affermazione del genere sarebbe coraggiosa (e, per certi versi, pericolosa) e che mi esporrebbe al linciaggio: ma potrei anche dire che il diritto non può, né deve, porre limiti all’arte».
N.M.: Una prospettiva del genere è da considerarsi valida anche per il “plagio” in ambito extra giuridico?
M.S.: «Fin qui abbiamo parlato di diritto, di “legal norms”. Ma esistono anche le “social norms”: il nostro comportamento è governato da regole sociali, che non sono quelle strettamente giuridiche. Ci sono regole forti, non scritte, che disciplinano i comportamenti all’interno delle comunità e che sono integrative ma anche oppositive alle regole giuridiche. La nostra condotta all’interno di un gruppo sociale ben definito è spesso più importante e definita da regole interne al gruppo, che con riferimento a quelle esterne. La comunità fotografica, e anche quella dell’arte, ha le proprie regole (e le proprie sanzioni !!), spesso molto più cogenti e pesanti di quelle giuridiche e di quelle poi riportate dalle sentenze. E all’interno di queste social norms ci sono le copynorms (Solum) che, rispetto al diritto di autore, distinguono comportamenti accettati o non accettati. Per esempio, le creative commons sono copy norms). Chi copia, o dà l’impressione di aver copiato, all’interno della comunità viene bollato per sempre. Anche se a livello amatoriale, il vecchietto con le rughe, le architetture in b/n tanto contrastate o le indecenti “photoshoppate” sono la normalità (tanto il fine è vincere un concorso…)! Cosa può accettare del “plagio” la comunità fotografica, in senso esteso (editori, fotografi,ecc.)? Mercato e collezionisti hanno spesso un’altra visione: il “plagio” appartiene al mercato, fa vendere. Quanti sono i fotografi che scattano architettura con il banco ottico, a colori e sovraesposto? Quanti si occupano di fotografare il vero che sembra falso o il falso che sembra vero?»
N.M.: In un mondo (e un mercato) dell’arte praticamente senza confini, un collezionista come può tutelarsi dall’acquisto di opere che poi risultano il plagio di altre?
M.S.: «Posto che “Nulla si crea, tutto si trasforma e si ricicla” (Blisset), il collezionista (che non è il mercante) deve sempre settorializzare la propria collezione, andando alla ricerca di autori ed opere all’interno di particolari filoni. Sarà sempre la conoscenza del settore e la competenza (propria o degli esperti che lo assistono) a dare valore alla collezione e ad evitare acquisti impropri. Sarebbe poi molto difficile fare una causa perché l’opera comprata è simile ad un’altra».
N.M.: L’artista, invece, come può difendersi dall’accusa di “plagio”?
M.S.: «E’ sempre una questione di densità concettuale della propria opera: di autori che hanno realizzato segni primigeni ce ne sono stati tanti, ma ora le opere d’arte valgono, spesso, più per il mercato che le sostiene che per il loro reale valore artistico. Per la fotografia, per quanto ho già detto, è un discorso sostanzialmente diverso».
© Riproduzione riservata