Mentre nel ‘900, e negli anni precedenti, raramente si sente parlare di “artiste” al femminile, negli ultimi vent’anni il numero di donne nel mondo dell’arte sembra essersi intensificato e valorizzato. Sarà per la crescente (anche se non ancora totalmente conquistata) e fortemente combattuta equità di genere? Sembrerebbe proprio di sì: un piccolo passo per le donne, un grande passo per l’umanità, come potrebbe dire qualcuno.
Nel suo saggio degli anni’70, Linda Nochlin, difatti cerca di sviscerare la questione tanto dibattuta: “Perché non ci sono state grandi artiste?” o, qualcuno si potrebbe anche domandare, perché non le hanno mai considerate?
Il mondo dell’arte, che da tempi immemori è stato dominato da una narrazione prevalentemente maschile e occidentale, sembra stia vivendo una trasformazione radicale, in cui la donna ne diviene (quasi) protagonista. Mentre prima le Guerrilla Girls si ponevano in modo irriverente la domanda :“Do women have to be naked to get into the Met. Museum?”, per denunciare anche le pratiche patriarcali nel mondo dell’arte, adesso la situazione sembra essersi capovolta. Oggi, le donne conquistano spazi nei musei, nelle gallerie e, soprattutto, nelle aste internazionali.
Battuto il record d’asta per un’artista donna vivente
Se qualche decennio fa ci avessero detto che opere come “Miss January” (1997) di Marlene Dumas avrebbero raggiunto i 13,6 milioni di dollari in un’asta di Christie’s a New York (maggio 2025), probabilmente in pochi ci avrebbero creduto.
Tra il 2008 e il 2019, secondo un’indagine congiunta di In Other Words e artnet News, sui 196,6 miliardi di dollari spesi in aste d’arte, solo circa il 2% (intorno ai 4 miliardi di dollari) include opere realizzate da donne. A titolo di confronto, solo le opere di Picasso hanno generato nello stesso periodo 4,8 miliardi di dollari. Le case d’asta principali, come Sotheby’s, Christie’s e Phillips, raramente includevano le artiste nelle loro vendite più prestigiose e il collezionismo sembrava ignorare il valore del lavoro femminile. Questa disparità era la regola, non l’eccezione.
Negli ultimi sei anni, questa tendenza sembra stia iniziando gradualmente ad invertirsi; riusciamo ad intravedere una crescente consapevolezza critica ed una maggiore sensibilità da parte dei collezionisti. Il cammino per una completa equità di genere, però, è ancora lungo e il gap di record d’asta tra uomini e donne ancora abbastanza profondo. Nonostante ciò, il mercato, anche se a piccoli passi, non smette di sorprenderci.
Nel corso della 21esima Century Evening Sale di Christie’s a New York dello scorso maggio, infatti, vediamo un record d’asta incredibile per un’artista donna vivente: 13,6 milioni di dollari. Il dipinto “Miss January” raffigura una “donna dal seno prosperoso simile a Suzanne Somers” che l’artista ha trovato in posa come paginetta centrale di una rivista pornografica e proviene dalla collezione di Mera e Don Rubell, la coppia di potenti mecenati d’arte di Miami. Dumas, oggi settantunenne, è famosa per le sue audaci rappresentazioni di temi come la morte, la violenza, la sessualità e la razza. Sara Friedlander, vice presidente di Christie’s per l’arte contemporanea e del dopoguerra, dichiara che “in questo dipinto, Dumas dimostra trionfalmente la sua maestria formale nel rappresentare il corpo femminile, liberandolo al contempo da una tradizione di sottomissione e ribaltando i concetti normalizzati del nudo femminile attraverso la lente di una storia incentrata sull’uomo”.

Prima di lei, il record più alto è stato detenuto da Jenny Saville, col dipinto “Propped” (1992) venduto nel 2018 da Sotheby’s a Londra per 8,25 milioni di sterline (buyer’s premium escluso). Il momento storico, però, fu oscurato dai media quando, durante la stessa vendita, quella famosa tela di Bansky appena battuta si autodistrusse.
Ritornando all’asta di Christie’s, Dumas non è l’unica donna che ha raggiunto risultati rilevanti: Simone Leigh, ad esempio, con la sua opera “Sentinel IV” (2020) ha superato la stima alta raggiungendo i 5,7 milioni di dollari e aggiornando, così, il suo record d’asta, mentre per “Bedtime Story” (1999) di Cecily Brown, si è arrivati a ben 6,2 milioni di dollari. Tra le altre opere di donne che hanno superato il milione troviamo anche quelle di Yayoi Kusama, Elizabeth Peyton, Julie Mehretu e Lisa Brice, quest’ultima presente con “Midday Drinking Den after Embah I and II” (2017) che ha trovato un nuovo proprietario per 2,9 milioni di dollari, dopo il suo record di 5,4 milioni di sterline raggiunto lo scorso marzo 2025 da Sotheby’s a Londra.
Economicamente parlando, investire sulle donne, oltre che ad una scelta strategica, diviene anche una questione etica: significa sostenere un’economia dell’arte più equa, pluralista ed inclusiva.
Perché nel passato, però, non ci sono state grandi artiste? Un ecosistema in evoluzione
Linda Nochlin sentenzia così la questione, in modo provocatorio ed impertinente, lasciando poco spazio all’obiezione femminista che “dissotterra nomi caduti nell’oblio di artiste sottovalutate o poco considerate; nobilita carriere modeste seppur interessanti e prolifiche; monta un caso riscoprendo autrici dimenticate di composizioni floreali o emule di David”. La Nochlin, sottolinea, infatti che “l’arte, sia per quanto riguarda l’evoluzione dell’artista sia per la natura e la qualità dell’opera in sé, è l’esito di una situazione sociale, della cui struttura è elemento integrante, mediata e determinata da specifiche e ben definite istituzioni”. In una società in cui le donne erano costrette a scegliere tra carriera o matrimonio, tra solitudine o vita sessuale e affettiva (indirizzate inevitabilmente a perseguire sull’importanza della seconda e sulla cura della famiglia come unica vera forma di realizzazione) non è difficile da immaginare il perché non ci siano state grandi artiste. Quanti artisti sarebbero diventati tali se gli uomini avessero avuto le stesse alternative?
Quasi tutte le artiste, specie tra il XIX e XX secolo, erano accomunate dall’avere un padre a sua volta artista o dall’essere legate ad una personalità artistica maschile più forte o dominante. L’autrice ce ne nomina alcune: da Sabina von Steinbach, scultrice quattrocentesca che realizzò i gruppi del portale della cattedrale di Strasburgo; Rosa Bonheur, la più rinomata pittrice di animali dell’Ottocento, il cui padre, socialista libertario, la educò all’uguaglianza dei sessi; ma anche Marietta Robusti (figlia di Tintoretto), Lavinia Fontana, Artemisia Gentileschi, Élisabeth Chéron, Élisabeth Vigée-Le Brun e Angelika Kauffmann. In questo caso, tutte figlie di padre artista. In linea generale, dunque, doveri e aspettative sociali gravavano talmente tanto sulla maggior parte delle donne che rendeva semplicemente impensabile la dedizione totale richiesta dalla professione artistica.
Oggi, invece, sembra che finalmente le cose stiano prendendo una piega diversa. Questi record d’asta, menzionati poco fa, infatti, non sono frutto di un esito fortuito. Nel retroscena del successo delle artiste dei nostri tempi si ergono basi solide di un ecosistema in evoluzione: gallerie che scelgono di rappresentare più donne (come Hauser & Wirth, che ha rilanciato la carriera di Anna Maria Maiolino e Zilia Sánchez), curatori museali impegnati nella parità di genere e collezionisti illuminati che acquistano consapevolmente questa categoria di opere. Le fiere internazionali (es. Art Basel, Frieze, ecc. ) stanno gradualmente dando spazio a pratiche meno eurocentriche e maschili, portando alla ribalta artiste trans, queer, indigene e di colore. Anche i musei cominciano ad aggiornare le loro collezioni permanenti: il MoMA di New York, nel 2019, ha riorganizzato il suo allestimento per includere più artiste donne e il MET ha acquistato recentemente opere di Betye Saar, Lynette Yiadom-Boakye e Carmen Herrera. In Italia, purtroppo, la situazione è più arretrata, anche se in istituzioni come il MAXXI di Roma e la GAM di Torino si intravede un barlume di progresso.
Nasce, poi, nel 1981, il National Museum of Women in the Arts, il primo museo al mondo dedicato interamente a sostenere le donne attraverso l’arte. Grazie alle sue collezioni, mostre, programmi e contenuti online il museo affronta la disparità di genere portando alla luce le grandi artiste del passato e promuovendo al contempo le nuove artiste del futuro.
Le fondamenta di questo nuovo ecosistema non starebbero diventando così solide se alla base stessero operando solo attori al maschile. Per questo è essenziale sottolineare l’importanza del supporto anche di donne galleriste, art dealer, e così via. Per citare alcune tra le galleriste più attive nel promuovere una nuova generazione di artiste, vi sono, ad esempio, Marianne Boesky e Sadie Coles, ma anche coloro che furono grandi protagoniste del mondo dell’arte internazionale da oltre cinquant’anni, come Daniella Luxembourg e Barbara Gladstone, le cui collezioni sono passate in asta da Sotheby’s lo scorso 15 maggio. Quest’ultime aste hanno raggiunto rispettivamente un totale di 40,4 e 18,5 milioni di dollari, superando le aspettative con il 100% dei lotti venduti e oltrepassando del 75% le stime alte. “I risultati di ieri sera sono stati straordinari”, ha dichiarato Gabriela Palmieri, consulente per le collezioni di Daniella Luxembourg e Barbara Gladstone. “Come si può non essere entusiasti di veder ricevere il giusto riconoscimento che meritano queste collezioni visionarie di due donne pioniere del mondo dell’arte?”
Si parla di arte e di femminismo
L’attivismo femminista è stata un’altra delle chiavi di volta (e di svolta) che ha permesso l’emancipazione delle donne anche nel mondo dell’arte, liberandole dallo stigma della figura stereotipata di moglie e donna di casa imposto dalla società machista.
Si parla di Feminist Art per indicare quel movimento, nato a cavallo degli anni ’60 e ’70 negli Stati Uniti, che simboleggia una forma di protesta e ribellione contro una società patriarcale che esclude le donne dal mondo dell’arte. Ispirato dai cambiamenti sociali degli anni ’60, in cui nacquero anche molti gruppi di liberazione femminile, i temi principali erano legati al patriarcato, ai ruoli di genere, ai lavori domestici, al razzismo, alla misoginia, all’industria della bellezza e alla cultura pop. La generazione più giovane di artiste femministe adotta, invece, un approccio intersezionale che incorpora questioni di razza, classe, forme di privilegio, identità e fluidità di genere. Un’evoluzione continua nell’arte che fonda sempre più il suo legame con il femminismo in senso lato.
Negli anni ’70, vi furono artiste come Judy Chicago, Miriam Schapiro, Nancy Spero o Faith Ringgold che sono state pioniere nella denuncia dell’esclusione patriarcale. Nel 1972, ad esempio, Judy Chicago e Miriam Schapiro hanno creato la Womanhouse, un’installazione artistica collaborativa collocata all’interno di una vera casa di Los Angeles, per ricreare una casa di periferia mostrando il ruolo della donna al suo interno. Oggigiorno, quest’arte di protesta al femminile non è solo un manifesto ideologico, ma trova spazio anche nell’ambito collezionistico e nelle istituzioni culturali.
Come citate all’inizio, altrettanto iconiche sono le Guerrila Girls, collettivo fondato nel 1985 a New York, che mantiene l’anonimato indossando in pubblico maschere da gorilla, con l’obiettivo di mettere a nudo l’ipocrisia del sistema artistico. Nel 1989, sfoggiano il loro celebre manifesto divenuto icona culturale in quegli anni : “Do women have to be naked to get into the Met. Museum?”. Un messaggio provocatorio accompagnato da una donna nuda (ispirata alla “Grande Odalisca” di Ingres esposta al Louvre) che indossa una maschera da gorilla, e dalle statistiche che paragonavano il numero di artiste donne rappresentate dalle moderne gallerie d’arte con quello dei nudi femminili esposti all’interno del museo. Il manifesto, audace e accattivante, ebbe un impatto anche per il suo messaggio: la mancanza di diversità di genere al Museo e nel mondo dell’arte in generale negli anni Ottanta.

Tra le figure più emblematiche del XX secolo e altro esempio esplosivo di ribellione al sistema patriarcale, troviamo Niki de Saint Phalle. Artista franco-americana, celebre a partire dagli anni ’60, sapeva che nella storia dell’arte poche erano state le donne scultrici che si erano confrontate nello spazio pubblico e, soprattutto, che avevano raccontato attraverso l’arte le diseguaglianze di genere e i ruoli imposti da una società ancora profondamente patriarcale. Accanto alle sue opere di denuncia, crea donne forti, possenti, più grandi degli uomini per poterli superare: le sue Nanas. Non più passive odalische, bensì nuove dee, sculture monumentali e colorate, che rivendicano pari poteri e opportunità. Ha rappresentato i più fragili e dato loro voce, perché convinta che solo cambiando i rapporti di potere si può ottenere una società più giusta. Si è schierata a favore di ciò che era taciuto o emarginato nella cultura e nell’arte occidentale, non solo dalla parte delle donne, ma anche delle persone di colore, dei bambini, dei malati, degli animali. Ha usato l’arte come sfogo e come mezzo per gridare al mondo la sua rabbia verso le ingiustizie, dimostrandoci che ribellarsi è un atto sano, necessario e indispensabile.
Grazie alla sua dissacrante tenacia è riuscita ad inserirsi nelle collezioni di grandi musei a livello internazionale, nelle vendite delle maggiori case d’asta (Christie’s, Sotheby’s, Phillips), ma, soprattutto, a creare una maggior sensibilità a livello umano, che va al di là di ogni prezzo di mercato. In particolare, in questo periodo, stiamo assistendo ad un’ondata di mostre in tutto il mondo dedicate a de Saint Phalle che riabilitano il lavoro dell’artista.
Il mercato di Niki mostra la sua particolare forza proprio nelle sue Nanas, per cui raggiunse un record d’asta di €750.000 nel 2008 per “Untitled” (Nana, fontana) alla casa d’aste Lempertz (Colonia). Tre sculture (che originariamente dovevano essere vendute singolarmente) facenti parte della serie di opere de “Les Trois Graces”, che funzionano come fontane d’acqua. Le recenti vendite nel 2024 suggeriscono un rinnovato interesse del mercato anche per i suoi lavori più sperimentali.

È mortificante pensare, però, che molte di queste artiste sono accomunate da violenze subite da parte di uomini; come la stessa Niki che a 11 anni è stata violentata dal padre o come Artemisia Gentileschi, che a 17 anni venne stuprata dal 31enne Agostino Tassi, evento che la segnò per tutta la vita. Questo, purtroppo, non riguarda solo le artiste del passato, ma la maggior parte delle donne ancora oggi. La storia, però, ci insegna una cosa: ogni volta che le donne fermano il mondo, protestano, scioperano o usano la loro arte come strumento politico per farsi sentire, ottengono sempre maggiori conquiste verso la bramata uguaglianza. Quindi, come incita anche la scrittrice Carlotta Vagnoli, non smettiamo di fare rumore e di farci sentire.