Ero a Firenze per lavoro, giravo tra le vie bollenti della città in questa estate che non ha risparmianto nessun angolo, neppure quelli all’ombra. Così mi è parso inevitabile trovare un modo per fuggire un giorno alla canicola soffocante, fare un biglietto per il bus direzione Barberino e salire verso le colline dell’Appennino.
Ad accogliermi avrei trovato quelli che poi non fatico a dire essere diventati amici: Giuseppe, Vera e Diana mi hanno aperto le porte di un luogo speciale, nascosto tra i capannoni di Scarperia e San Pietro, tra i produttori storici di coltelli e le colline di una Toscana boscosa non troppo battutata dai turisti internazionali.
Entrando dentro un museo originale e diverso da quelli che sono solita visitare, mi sono subito resa conto che non avrei sentito la narrazione fredda e scientifica della nascita di una collezione di pezzi seriali, ma piuttosto mi sarei trovata ad ascoltare una storia appassionata e non facile da raccontare a parole.
Ciò che ha permesso a questa collezione di diventare il museo a due piani che provo a introdurre qui è senza dubbio l’amore fraterno. Giuseppe Brizzolari, ideatore e fondatore di Spazio Brizzolari, è il fratello di Antonio, artista fiorentino controverso afflitto da una malattia mentale che nei suoi anni di vita ha minato i rapporti sociali e professionali.
Professore di liceo a Scarperia, viene allontanato dall’insegnamento a seguito della diagnosi di schizofrenia e si ritrova così solo in casa di cura a poter esprimere, sui supporti di fortuna che aveva a disposizione, la sua arte.
Ma non voglio scrivere di come è nato questo luogo, lo raccontano benissimo Giuseppe e sua moglie Vera nell’intervista qui sotto allegata, curatori, conservatori, catalogatori, guide e chi più ne ha più ne metta. Vorrei piuttosto riuscire a trasmettere l’importanza della passione, necessaria a far crescere – anzi a istituire – un reltà come quella dello Spazio Brizzolari.
Non facile da gestire, neppure da promuovere. Ancor meno da progettare. Spazio Brizzolari è il contenitore di una collezione ampia e difficile da definire dai canoni tradizionali. All’interno troviamo dipinti su tela, abbigliamento apparentemente casuale, installazioni site specific, una biblioteca. Questa coppia, coinvolta dalla loro vicenda familiare, e con il supporto di una curatrice e amica quale Diana Di Nuzzo si prende cura di una vera e propria opera d’arte complessa ed eterogenea: l’opera lasciata in eredità da Antonio Brizzolari.
Non so se definire la loro attività come un progetto aperto di valorizzazione. Non so neppure se sia giusto tradurre il loro lavoro con la sola parola “museo”. Certo è che incontrare collezionisti come loro mi fa capire ancora una volta e mi conferma quanto sia importante parlare di cura e conservazione, di quale ruolo importantissimo giochi la documentazione e la capacità di tenere insieme i pezzi per poter raccontare una storia che diversamente verrebbe dimenticata.