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Michele Rossato: collezionismo generazione y

del

Restiamo in quel di Vicenza con la storia di Michele Rossato, una storia piena di fatti banali, dice lui, ma io non ne sono affatto sicura. Scopriamola insieme!

 

[infobox maintitle=”Identikit del giovane collezionista” subtitle=”Michele Rossato, 1982, collezionista di arte optical e non solo” bg=”gray” color=”black” opacity=”off” space=”30″ link=”no link”]

Alice Traforti: Caro Michele, siamo quasi coetanei e abitiamo nella stessa provincia di Vicenza, ma ci siamo incrociati solo da poco sulle strade del contemporaneo.  Abbiamo seguito percorsi diversissimi. Io ho iniziato ad amare l’arte dal nulla, alla fine del liceo, e per chissà quali motivi ho deciso che ne avrei fatto la mia professione.  Vuoi raccontarmi invece come è iniziata la tua storia?

Michele Rossato: «Cara Alice, intanto ti ringrazio per questa opportunità: poter raccontare la mia storia mi rende davvero felice ed entusiasta. Il mio interesse per l’arte è iniziato da piccolo: un po’ grazie alla scuola, affascinato dalle creazioni del mio professore di educazione artistica Aldo Parente, ma soprattutto grazie alla vicinanza dello zio artista Giovanni Duso, che fece della pittura prima una passione, poi un lavoro vero e proprio. Anche il nonno era appassionato d’arte e pittore autodidatta. In modo del tutto naturale, ho cominciato a frequentare mostre, spesso personali dello zio e qualche fiera d’arte… e più passava il tempo, più dentro di me la passione si faceva forte. Così è cominciata la mia storia».

A.T.: Mi interessa molto il passaggio personale che hai compiuto da praticante artista a collezionista. Come è avvenuta questa consapevolezza dentro di te?

M.R.: «Questo è un aspetto fondamentale, anche se la mia risposta potrà risultare banale. In maniera molto sincera, confesso che non ho mai rivelato grandi doti artistiche, ma volevo essere un artista anch’io, forse proprio per assomigliare a Giovanni Duso che mi fece conoscere e amare l’arte più degli altri. Ho sempre considerato l’arte come parte integrante dell’uomo, come qualcosa che ha dentro e che in qualche modo deve far uscire, prima o poi. Penso che ognuno di noi abbia qualcosa da donare nel mondo dell’arte, ed è proprio questo bisogno che mi spinse a comprare le prime tele su cui esprimere le mie emozioni. Non seguivo una strada precisa, passavo in maniera del tutto casuale dal figurativo all’informale. Per una breve parentesi, affascinato dalle caricature di Giorgio Forattini, mi misi addirittura a far disegni di quel genere!

Ora arrivo al punto di svolta: se da una parte c’era il desiderio di esprimermi attraverso la pittura, dall’altra prendeva sempre più corpo la voglia di conoscere la vita e le creazioni degli artisti contemporanei, ma soprattutto di farli diventare parte integrante del mio mondo, della mia quotidianità. L’unico sistema, seppur non semplice, era quello di portarmi a casa le loro opere. Frequentando mostre e fiere tutto ciò fu per me inevitabile, troppa era l’emozione che provavo e troppo il desiderio di farle mie, di averle sempre con me. Credo non ci sia altro da aggiungere quando davanti a un’opera d’arte senti qualcosa stringere dentro: lì tutto si ferma.

Giovanni Duso, tecnica mista, anni '80
Giovanni Duso, tecnica mista, anni ’80

Fu comunque una strada in salita. Lo studio e la conoscenza degli artisti e dei movimenti per un collezionista è tutto. Senza contare i tanti dubbi che si insinuavano, soprattutto sulla scelta di cosa comprare: il confine tra il semplice collezionismo e l’investimento in arte è davvero molto sottile.

Sarebbe ipocrita nascondere che, talvolta, mi sono trovato a esser mosso da questo desiderio di investire, non per sfruttare il nome dell’artista o il mero valore oggettivo dell’opera, ma piuttosto per un senso di soddisfazione nel vedere un artista diventare univocamente riconosciuto da tutti come tale.

Essere partecipi della crescita di un artista, vederlo superarsi ogni giorno, a poco a poco, mi da uno stimolo pazzesco e fondamentale per me, per rendere viva questa mia passione. Per chiudere il cerchio, successivamente ebbi modo di cimentarmi ancora nella pittura, ma ebbi nuovamente conferma che quella non era la mia strada. Ricordo ancora quel momento: presi la tela incompiuta e ne feci un falò, con la certezza di smettere in maniera definitiva».

A.T.: Una domandina di rito ormai: che cosa ti piace collezionare? Mi chiedo soprattutto se c’è un filo conduttore tra gli artisti della tua collezione.

M.R.: «Anche su questo aspetto c’è stato un passaggio abbastanza netto e improvviso, nel senso che cominciai a collezionare arte figurativa e informale/astratta, incisioni, disegni, anche scultura, citando alcuni nomi come Michele Cascella, Giovan Francesco Gonzaga, Mario Radice, Mario Schifano, Fernandez Arman, Gio Pomodoro… fino al giorno in cui scoprii l’arte cinetica e optical, e lì qualcosa cambiò per davvero. Il concetto che l’opera non era più volta a soddisfare il solo piacere estetico di chi la guardava, come un qualcosa di meramente bello, ma veniva concepita con lo scopo di ingannare l’occhio, di creare movimento, e a volte persino disturbo, per chi si cimentava in essa, questa cosa mi affascinò da morire. Il fruitore diventa quindi fondamentale per il compimento dell’opera stessa, creando a volte una dinamica percettiva mutevole, una vera e propria illusione cui l’occhio viene obbligato a sottostare.

Qui mi sento di nominare Edoer Agostini, un grande maestro dell’arte optical, purtroppo prematuramente scomparso, proprio quando gli arrivò l’invito per partecipare alla Biennale nel 1986. Grazie alle sue opere ho cominciato ad amare la Op art. Quest’incontro cambiò drasticamente la mia strada di collezionista, determinando una dedizione quasi completa a questo movimento.

Il nome di Agostini mi era stato casualmente suggerito da un collega di lavoro, originario di San Martino di Lupari (PD), città natale di Agostini. Io non lo conoscevo, perciò andai subito a documentarmi e rimasi folgorato all’istante dalle sue creazioni, dai risultati pittorici che riusciva a ottenere.

Ogni volta che mi capita di vedere una sua opera, mi chiedo ancora come abbia fatto a eseguirla, con quale sistema sia riuscito a ottenere certi effetti, e ogni volta rimango piacevolmente senza risposte. Per me è meraviglioso restare lì a guardare ogni singola tessitura dell’opera, studiarla, cercare di capirla, perché è proprio grazie alla sua esperienza nel settore tessile che le sue opere prendono vita. Infatti è impossibile fissarle per più di qualche secondo: le tramature di colore sono tanto fitte che fanno letteralmente impazzire l’occhio, creando l’effetto ottico-cinetico.

Aggiungo solo due righe sul Museo Umbro Apollonio: creato da Agostini proprio a San Martino di Lupari, raccoglie la collezione costruita intorno alla famosa Biennale d’arte contemporanea di San Martino di Lupari, istituita sempre da lui, che richiamava artisti da tutto il mondo, gli stessi che oggi sono considerati i Maestri dell’arte cinetica. Ha lasciato alla città più di 160 tra opere e capolavori di artisti nazionali e internazionali, visibili presso la sede comunale. Un grande!».

A.T.: In questo ciclo di interviste c’è una curiosità che mi accompagna costantemente, e cioè quella di capire dove compra arte contemporanea un giovane collezionista di oggi.

M.R.: «Adesso si può compare arte ovunque per fortuna, o forse no. Una volta ci si recava esclusivamente nelle gallerie o direttamente dall’artista, non che ora non lo si faccia, ma con l’avvento di internet, e anche della televisione come mezzo di vendita, un collezionista ha molteplici canali dove acquistare. Senza dimenticare le aste, che negli ultimi anni hanno preso piede alla grande, dando una scelta che non ha eguali, ma che talvolta però penalizza il vero valore dell’artista. Personalmente ho avuto modo di acquistare in tutti questi modi, e anche nei mercatini d’antiquariato. Ricordo con gioia che acquistai lì la mia prima opera, un’incisione di Antonio Bueno».

A.T.: Quali sono, secondo la tua esperienza, le differenze più marcate tra acquistare arte in galleria e riempire un carrello sul web?

M.R.: «Sicuramente non c’è nulla che passa davanti al rapporto umano. Vedere un’opera su una foto online, acquistarla, farsela spedire, e tutto finisce lì. Viene quindi a mancare quel passaggio di emozione tra chi te la consegna in visione e tu che la stringi tra le mani e decidi di comprarla. Sul web, invece, l’opera d’arte diventa un oggetto qualunque. Aver davanti il gallerista, vedere arrivare l’opera e ammirarne i dettagli dal vivo, discuterne insieme ed emozionarsi… questo non ha paragone rispetto a un acquisto online.

Col tempo e con l’esperienza, soprattutto grazie al confronto con Enrico Art Suite di Verona, ho capito che chi vende arte di professione, se non ci mette prima di tutto animo cuore ed emozione, non otterrà nulla. Spesso si sente parlare di un artista associandolo a un coefficiente per dargli un valore, invece credo che un’opera d’arte non sia solo lunghezza x larghezza x coefficiente = valore, ma molto molto di più, anche se sul web questo aspetto è il più frequente».

A.T.: Arte contemporanea è ormai un termine abusato. Personalmente, preferisco dire attuale quando mi riferisco all’ultima produzione degli artisti di oggi. Che cosa pensi dell’arte emergente, fuori dai circuiti degli storicizzati?

M.R.: «L’arte attuale è appannaggio di tutti, nel senso che ci sono un’infinità di artisti. A volte mi chiedo, guardando le loro opere: davvero c’è ancora qualcosa da inventare? Come diceva Kandynsky: “ogni opera d’arte è figlia del suo tempo” e questo dice tutto. Spesso e volentieri ci si trova davanti a scopiazzamenti vari, soprattutto nell’arte optical, o di fronte a opere palesemente nate con l’unico mero obbiettivo della vendita, sperando col tempo di raggiungere i mostri sacri. Non me ne vogliano i giovani artisti, senza il cui passaggio di testimone il mondo dell’arte scomparirebbe, lasciando spazio solo al passato, ma a un certo punto bisogna pur ammetterlo.

Mi sento comunque di fare un grande in bocca al lupo ai nuovi artisti di tutte le età, perché riescano ad andare oltre le critiche, anche quelle come la mia: se quello che fanno è quello che veramente sentono, la loro strada non li tradirà e sono sicuro che chi avrà veramente merito riceverà le giuste soddisfazioni. A volte penso che le nuove generazioni considerino l’arte come qualcosa di noioso, un interesse appannaggio di pochi, e questo è davvero molto triste.

Basti vedere mostre e fiere: la percentuale di giovani visitatori è davvero allarmante, ma è anche colpa della società, dei mass media e del naturale evolversi delle nostre abitudini: gli interessi sono altri. Chissà che un giorno ci sia una vera e propria inversione di tendenza e che si ritorni ad apprezzare, come una volta, questo affascinante aspetto della nostra vita.

VIVA L’ARTE».

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Michele grazie a te!

Tra le tante cose interessanti che hai raccontato, hai toccato un tema delicato, proprio qui in fondo: le nuove generazioni.

Credo che bisogni fare un passo indietro ancora e pensare all’educazione delle nuove generazioni e di quelle che le hanno educate… insomma: dove si è rotta la catena, in che punto è saltato l’anello della cultura?

Appannaggio di pochi dici tu… eppure io vedo arte e artisti ovunque e di tutti i tipi, ogni giorno è una scoperta nuova.

Le possibilità di incontro sono aumentate all’ennesima potenza, ma è ovvio: se non riceviamo un allenamento, un addestramento a considerare la cultura a 360°, non solo didattica e scientifica, storica e antropologica, come strumento di crescita della società, se manca questa consapevolezza, la battaglia è persa in partenza.

E perché mai non ce la creiamo, allora, quest’esigenza, questa necessità?

Ribelliamoci al risultato esteriore e abbandoniamoci all’ascolto interiore.

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