In tempi pandemici è piuttosto ricorrente sentir parlare di cura. Chi ha bisogno di cura, chi si prende cura, chi inventa nuove cure, chi non crede al male e alla sua cura, e via dicendo.
Il paradigma medico-farmaceutico vince su ogni altro possibile significato di una parola che invece ha radici antiche e dalle molteplici valenze. Durante il lockdown di primavera, tra le pagine di Repubblica divorate a colazione per cominciare quelle giornate tutte uguali, mi è capitato di leggere (e conservare) un box di Maurizio Maggini proprio sulla parola cura, quasi a confermare la fortuna di un termine di cui a questo punto si rischia l’abuso.
Era il 6 aprile: «La [radice, ndr] più accreditata è dal sanscrito khu nel senso di battere nel senso di darci proprio di martello, da cui poi prende la strada per accudere, che vuol dire forgiare, infatti da qui viene l’incudine che serve per quello. Che accudire sia un po’ forgiare ha un suo che, ma che curare sia in definitiva martellare bisogna pensarci un po’ su. Ma avendoci pensato, in fin dei conti cos’è la cura se non un dai e dai, un battere e ribattere? Però khu può anche essere per guardare, osservare, da qui kav, kavi, che è il saggio, in latino cautus, e in cos’altro consiste la cura se non in un assiduo e saggio sguardo?» .
Nella sua richiesta di assiduità e di continuità, l’azione di cura perde il carattere di eccezionalità legata alla malattia, recuperando invece la dimensione della quotidianità, necessaria al mantenimento di uno status o – meglio – all’accompagnamento cauto e discreto del suo naturale evolversi e cambiare.
Accompagnare, ascoltare e accettare il cambiamento costituiscono la base della cosiddetta resilienza, così tanto invocata in quest’epoca di crisi globale. Prendersi cura di qualcuno, di un luogo o di un oggetto – di qualcosa – è considerata oggi, nel dibattito internazionale sul futuro aperto dal Covid-19, un’azione chiave per sviluppare la resilienza delle comunità.
Ed eccola un’altra parola chiave dei nostri giorni: comunità. Perché, in barba al distanziamento fisico imposto dalle misure di contenimento del virus, siamo tutti parte di comunità più o meno grandi, più o meno offline, più o meno impegnate, ma in ogni caso tenute accese da interessi consimili, di cui – insieme – ci prendiamo cura. L’orto condiviso, le tagesmutter, i servizi collaborativi che in ormai tante ‘isole’ urbane, quartieri e social housing vengono sperimentati con soddisfazione, si configurano come ‘comunità di cura’ e diventano motore di innovazione sociale.
Se mettiamo insieme quotidianità (assiduità), cambiamento, resilienza e comunità, tratteggiamo un significato di cura che, lungi dal voler essere una risposta puntuale ad un male, ha più a che fare con le piccole azioni di ogni giorno e di ognuno, in una prospettiva di condivisione della responsabilità verso ciò che appartiene a noi e alla micro – e macro – rete di persone, di cittadini, di esseri umani a cui siamo legati.
Joan Tronto e Bernice Fischer definiscono cura «everything that we do to maintain, continue and repair our world», includendo quindi ogni azione, agita da ognuno di noi, indirizzata a mantenere, continuare e riparare il nostro mondo, in ogni sua parte, umana e non. In breve, una politica della cura, che si può progettare e alimentare. Una politica fatta di reciprocità e interdipendenza, perchè – come ricorda Maria Puig de la Bellacasa – ogni volta che curiamo, siamo curati. Una politica quotidiana, alla portata di tutti, fatta di azioni minime ma costanti, messa in moto da ascolto e riconoscimento delle necessità.
E’ questa l’accezione di cura che desideriamo applicare al Patrimonio Culturale, ad allargare il respiro della conservazione e della valorizzazione, ad aumentare la platea di attori coinvolti nella presa di coscienza e di responsabilità verso la nostra eredità storico-artistica. La conservazione è e rimarrà appannaggio di addetti ai lavori e professionisti adeguatamente formati; la cura è per tutti.