Nel nostro reportage da ArtePadova dello scorso novembre avevamo segnalato, a fine articolo, Maco Arte di Padova come uno degli stand più interessanti della Fiera. Maco Arte non è propriamente una galleria ma un progetto di Art Advising & Consulting, per dirla con termini anglosassoni. Quindi, oltre alla compravendita di opere, si occupa di seguire e consigliare i collezionisti; tuttavia uno dei lati più interessanti del lavoro di Maco Arte consiste nel ricostruire storia e pedigree delle opere, al di là delle semplici autentiche e archiviazioni. Ne abbiamo parlato con Mattia Munari, fondatore e titolare di Maco Arte. (Leggi -> ArtePadova 2016: molta “moda” e poca qualità)
Sandro Naglia: Come nasce Maco Arte?
Mattia Munari: «Maco Arte è nata nel settembre del 2012, quando io mi sono messo — diciamo così — “in proprio”, poiché prima venivo da un’attività di galleria in cui lavoravo con mio padre. Ho creato una società con due amici, e l’intenzione era di avere un’attività indipendente, senza aiuti familiari… Inizialmente il progetto mirava in maniera particolare a sostenere un artista che a me piace molto, Andrea Carpita: un artista giovane su cui si è sempre focalizzato il nostro lavoro, ma soprattutto all’inizio perché, partendo con poche risorse, bisognava creare in qualche modo un “mercato primario”…»
S.N.: Ti ricordi la prima vendita di Maco Arte?
M.M.: «La prima vendita è stata appunto un’opera di Andrea Carpita: un piccolo e grazioso quadro nero intitolato Ain’t no black, che poneva inaspettatamente una distanza tra realtà e apparenza.»
S.N.: A quale target di collezionisti si rivolge Maco Arte, e quali gli stili e le tendenze artistiche da voi più trattati? Organizzate anche esposizioni?
M.M.: «Noi ci muoviamo su un doppio binario di attività: la compravendita e i servizi di consulenza. Per la compravendita, in genere viaggiamo su budget di spesa che non arrivano ai 50.000 euro, almeno per il momento. I quadri più costosi che vendiamo toccano generalmente i 25/30.000 euro. È una questione di disponibilità di risorse — calcola che siamo partiti quasi da zero pochi anni fa — ma devo dire che questa fascia di prezzo a me piace molto perché d’altro canto permette a tante persone di avvicinarsi all’arte; oltre una certa soglia entrano in gioco altri meccanismi di vario tipo, non solo economico… in questa fascia si riesce inoltre a fare bene un discorso basato sulla qualità. Come servizi di consulenza, invece, nulla ci impedisce di occuparci di quadri anche ben più costosi. Quanto alle tendenze artistiche che trattiamo, direi un po’ tutto il Novecento fino al giorno d’oggi: pensa che mi è capitato una volta di acquistare nella stessa giornata, in due gallerie diverse, un olio su tela di Giuseppe Cesetti degli anni ’30 e un’opera di Davide Nido del 2002. Nelle nostre attività rientra poi anche l’organizzazione di mostre, per lo più in spazi pubblici: in questo senso il progetto più bello che abbiamo realizzato finora è stato probabilmente la mostra di Jean Dubuffet all’Orto Botanico di Padova nel 2015, in collaborazione con la Fondazione Dubuffet di Parigi. Attualmente, assieme al critico Nicola Galvan, stiamo collaborando a un progetto su Gianni Dessì che si svilupperà nelle sale del Centro Culturale San Gaetano di Padova nel luglio e agosto prossimi.»
S.N.: Cosa mi dici degli autori giovani e magari non ancora affermati? C’è un mercato collezionistico che vi veda coinvolti?
M.M.: «Fare un lavoro sugli artisti giovani è veramente difficile: è un’attività che consuma molte risorse, sia di tempo che di denaro. Vivere di quello è difficilissimo e secondo me bisogna avere una sorta di vocazione: se decidi di farlo ti ci devi dedicare completamente, cioè decidere di fare solo “mercato primario” e svolgere un’attività di promozione e di ricerca, finché ad un certo punto la tua credibilità diventi quella dell’artista, e viceversa. Chi compra, compra una cosa che gli piace, va bene, ma quante volte succede davvero solo questo? Chi compra, compra perché crede anche a un lavoro che è dietro a quell’artista: la collaborazione con un certo critico, con un certo gallerista, se c’è una determinata visibilità… perché l’acquirente vuole anche che i suoi soldi vengano seminati e non dispersi. Così però a volte l’aspetto puramente qualitativo rischia di passare un po’ in secondo piano… È un lavoro veramente complesso: io all’inizio ci ho anche provato con la galleria ma il bilancio rischiava di essere sempre in passivo; però di quell’avventura ho voluto poi tenere l’artista che per me valeva di più: Carpita, appunto. Anche Marco Bongiorni è un artista che mi piace molto: sono i due che continuo a seguire, dopo che sono stati i miei “primi amori” di gallerista.»
S.N.: E invece la specializzazione nel lavoro di ricostruzione di storia e pedigree di un’opera come è nato?
M.M.: «Ho un amico che mi ha enormemente influenzato in questo senso. A Padova c’è un collezionista, il professor Ernesto Damiani, con un’enorme passione per l’archivistica. La pratica ormai da una vita, ovvero da quando si rese conto, appunto da collezionista, che avere un quadro con o senza un pedigree cambiava molto le cose a livello di valutazione dell’opera. Ed è una persona che, per intenderci, passa giornate intere nelle biblioteche a fotografare integralmente riviste archiviando poi al computer informazioni e immagini, e così negli anni ha creato un immenso database. L’Archivio Damiani è oggi un punto di riferimento per le maggiori case d’asta internazionali, che lo contattano per sapere se le opere hanno o meno una “storia”. E questa è una cosa che, nel mondo dell’arte, incredibilmente viene spesso snobbata dagli operatori del settore. Anzi, a volte il venditore è così disinteressato a quest’aspetto che fa sì che vadano perse delle informazioni importanti: basta un passaggio di mano in cui chi vende non si preoccupi di dire che l’opera è pubblicata, o che è stata esposta, o da quale collezione provenga eccetera, che l’informazione è persa. Il 95% delle opere sul mercato viaggia senza una documentazione appropriata o esauriente, e la storia ci ha insegnato che la semplice autentica di un’opera può smettere di fare testo da un giorno all’altro, basta che muoia chi l’ha redatta e al suo posto arrivi qualcuno che rimetta in discussione tutto, come vediamo accadere a volte con gli eredi degli artisti o con le Fondazioni e gli Archivi. L’unica cosa che mette davvero al riparo il collezionista è il conoscere esattamente la storia dell’opera, i passaggi di mano che ha avuto, e che tutto questo venga documentato: un patrimonio di informazioni che spesso fa capo a riviste e cataloghi dell’epoca, a fonti fotografiche, e che ti cambia infine il valore dell’opera.»
S.N.: In un mercato dell’arte sempre più confuso tra falsi, archiviazioni, archiviazioni false, opere autentiche di cui si rifiuta l’archiviazione per motivi non sempre trasparenti, un servizio di ricerca storica come quello che svolge Maco Arte sembra essere prezioso. Dovrebbe essere svolto dalle grandi case d’asta, ma anche in quell’ambiente oggi si vedono accadere cose strane…
M.M.: «È un’arma che può essere utilizzata dalle case d’asta per documentare il meglio possibile le opere in vendita, ma bisogna vedere poi quanto tempo hanno a disposizione per farlo. Per quanto mi riguarda come acquirente, per me è una fortuna quando manca una documentazione esauriente dell’opera: il mio lavoro di ricerca può creare così una plusvalenza sul valore dell’opera in rivendita. Maco Arte comunque collabora anche con case d’asta, in particolare con lo Studio d’Arte Borromeo di Senago, vicino Milano. Ci troviamo quindi a volte da un lato, a volte dall’altro della barricata!»
S.N.: Puoi fare un esempio pratico sul tipo di lavoro di ricostruzione che ami svolgere riguardo alla storia di un’opera?
M.M.: «L’opera Le grand voilier di Antonio Corpora che avevamo portato ad ArtePadova l’anno passato, e che ora è stata venduta, può essere un bell’esempio. È un quadro del 1949, da noi acquistato in un’asta di Christie’s a New York, dove era stato messo all’incanto per conto del Milwaukee Art Museum cui era stato donato da Charles Zadok. Dopo sessant’anni dalla donazione il museo ha deciso di mettere in vendita l’opera, ma nel frattempo si era persa un’informazione fondamentale, ovvero che quest’opera aveva fatto parte di una mostra alla Gallerie de France di Parigi nel 1952: la mostra forse più importante fatta da Corpora, curata da Christian Zervos, critico importantissimo — il critico di riferimento per Picasso, nientemeno. L’opera era pubblicata sul catalogo della mostra, che noi avevamo in archivio: dal catalogo abbiamo potuto desumere anche la provenienza originale del quadro, che era la Collezione Cardazzo di Milano, ricostruendo così l’iter completo del quadro dalla sua creazione alla donazione al museo, tutte cose che non comparivano nella scheda di Christie’s. Inoltre, sfogliando il catalogo della mostra parigina di Corpora si può vedere come tutti gli altri quadri lì esposti si trovino attualmente nei principali musei del mondo, il che conferma ulteriormente — se ce ne fosse bisogno — il valore storico dell’opera.»
S.N.: Un altro esempio?
M.M.: «Ricordo con soddisfazione anche un’opera di Marcello Morandini acquistata in un’asta in Germania dove era presentata senza precisa documentazione né datazione. Orientandomi sulla collezione di provenienza, e grazie a un cartiglio sul retro dell’opera che rimandava a una mostra svoltasi ad Hannover nel 1972, sono riuscito a ricostruirne tutti i dati e anche a trovarne delle immagini pubblicate su cataloghi. E sai poi a chi è stata rivenduta quest’opera? Allo stesso Marcello Morandini, o meglio alla sua Fondazione che sta acquisendo sue opere storiche per future esposizioni!»