Fino alla fine del XIX secolo un pittore prima di essere tale, che si fosse formato in accademia o nella bottega di un artista già affermato, doveva essere un copista; e anche nel XX secolo pittori del calibro di Picasso erano abilissimi nel copiare. Ma un copista non è un falsario, un falsario è colui che opera con un intento fraudolento, copiando la maniera di un certo pittore, ma falsificando la sua firma o/e proponendo direttamente o indirettamente, attraverso un mercante, la sua opera falsa sul libero mercato.
Ma quando non si sia trovato l’artefice con le mani nel sacco, non è per nulla facile capire se un’opera sia falsa o no; del resto come è vero che negli ultimi cento anni gli storici e i critici hanno preso molte cantonate dando per buone opere false (uno per tutti il caso delle teste di Modigliani), è anche vero il contrario, che con troppa disinvoltura si è affibbiato il marchio di falso o di copia ad opere su cui non si era approfondito a sufficienza lo studio (uno per tutti il caso de “I bari” di Caravaggio, almeno secondo Denis Mahon). Esistono poi moltissimi casi che rientrano nella zona grigia che c’è tra il vero e il falso. Durante una mia visita alla mostra su Picasso tenutasi a Catania al Castello Ursino (Pablo Picasso e le sue passioni), ad esempio, ho visto esposta una linoleografia del Maestro con tanto di firma a lapis; la questione è che la linoleografia proveniva dal rinomato e bellissimo volume Bacchanals, Women, Bulls and Bullfighters edito nel 1962 da Harry N. Abrams a New York e che riproduceva, sotto la direzione di Picasso stesso, e sempre con tecnica linoleografica, le 45 tavole di dimensioni maggiori della tiratura originale, quelle sì firmate e numerate in 50 copie. Sembrerebbe improbabile che, all’età di 81 anni, Picasso, conoscendo lui stesso il valore della sua firma e dopo aver firmato le 2250 linoleografie della tiratura originale, si sia messo a firmare quelle provenienti da un libro; quindi la linoleografia è originale (dal volume di cui sopra) ma, a mio opinabile avviso, la firma è opera di un falsario. Bisogna quindi stare molto attenti a definire cosa significhi falso e soprattutto saper dare una valida motivazione a quanto si asserisce: non ci si può più accontentare di un sì o di un no, oggi si pretendono motivazioni sensate, possibilmente corroborate da prove.
Un altro punto non meno importante dei precedenti riguarda la magistratura e gli organi inquirenti che commettono in alcuni casi un errore macroscopico, chiamando le fondazioni e gli archivi a giudicare l’autenticità di opere degli artisti di loro interesse, coinvolti in problematiche processuali o pre-processuali. E’ proprio quest’interesse degli archivi su un singolo artista, infatti, che dovrebbe far venire in mente l’esistenza di un conflitto e che il giudizio sull’autenticità delle opere dovrebbe essere affidato a terzi, privi di un diretto coinvolgimento nella divulgazione dell’opera dell’autore oggetto di perizia, ma in possesso delle competenze adatte a giudicare l’autenticità di un’opera d’arte.
Per concludere, il vero e il falso in un’opera d’arte sono due facce della stessa medaglia, non vanno prese decisioni “a cuor leggero” in nessuno dei due sensi; bisogna sempre dubitare almeno un pochino di quanto si asserisce anche perché in fondo, parlando di Michelangelo, chi può assicurare che il Tondo Doni non sia in realtà una copia di pochi anni successiva e che l’originale non sia andato distrutto in un incendio? È solo per gli affreschi della Cappella Sistina su cui si potrebbe mettere la mano sul fuoco: chi avrebbe potuto staccarli e rifarli? Nessuno.