Tarantina di nascita, ma milanese di adozione, Patrizia Emma Scialpi (n. 1984) ha sviluppato negli anni una ricerca artistica che si concentra sulla natura e sulla diversità dei legami e delle relazioni che intercorrono tra gli individui, in rapporto ai differenti contesti ambientali e storici, nel tentativo di instaurare un dialogo chiarificatore con il presente. Una ricerca che, recentemente, si è allargata anche ai concetti di limite e di errore. In vista della sua prossima personale presso la galleria Villa Contemporanea di Monza, l’abbiamo incontrata per parlare del suo percorso artistico e dei suoi ultimi lavori.
Nicola Maggi: Memoria e Nostalgia. Che ruolo hanno questi due elementi nella tua ricerca artistica?
Patrizia Emma Scialpi: «Memoria e Nostalgia sono due elementi che hanno accompagnato da subito il mio lavoro artistico, configurandosi il più delle volte come macro contenitori entro cui far risuonare diversi aspetti della mia ricerca. Episodi e visioni legati al passato divengono il punto di partenza per riflessioni più ampie che espandono i confini di una memoria strettamente personale perché persista e si trasformi oltre le vicende storiche concrete».
N.M.: …e importante, all’interno della tua ricerca, mi sembra anche l’aspetto dell’identità, ossia dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale e affettivo. Tema che hai affrontato in lavori come Tre Giorni Dopo o Dove sono nata io…
P.E.S.: «Sì, certamente. Queste tematiche emergono di frequente quando elaboro dei lavori site specific come quelli che hai citato tu, nei quali mi interessa approfondire la natura dei legami tra gli individui e il rapporto con il contesto in cui vivono e operano. Per esempio in Dove sono nata io il paesaggio diventa il contesto in cui descrivere le dinamiche di identificazione e riconoscimento: la nostalgia e il dolore della perdita divengono strumenti di un’azione di salvaguardia contro tutto ciò che minaccia la nostra identità; rifugio ideale contro le incertezze e lo spaesamento. In Tre Giorni Dopo una breve lettera conservata presso il Museo del Minatore di Casarano costituisce l’elemento generativo di una narrazione che prende il via dalle vicende biografiche di un minatore emigrato in Belgio, per indagare il nostro rapporto con l’idea di distanza e perdita. Attraverso una raffigurazione della tavola apparecchiata, simbolo del focolare domestico, il lavoro crea al contempo una riflessione analogica con il genere della natura morta».
N.M.: Spesso, nelle tue opere, ti appropri e riutilizzi immagini preesistenti su cui poi lavori con interventi di natura pittorica. Penso, ad esempio ai progetti Erdenrest del 2012 o Love and Loss del 2014 che ho apprezzato molto a TheOthers. Ci dici qualcosa della pratica artistica?
P.E.S.: «Ho iniziato ad attuare questo tipo di intervento su vecchie foto di famiglia, divenute poi una serie di lavori (Restano Cure, 2011). Questo tipo di operazione trova senso come transfer sentimentale: il segno del pennello diventa un’estensione tattile ed emotiva, una seconda patina che tenta di creare un collegamento tra la memoria tracciata e indicale della fotografia e quella personale di chi osserva il lavoro. Negli anni questa pratica si è evoluta mantenendo l’elemento dell’emotività ad un livello meno privato e concentrandosi sull’elemento del luogo. Rimodulando la comune gerarchia compositiva nei rapporti tra figura e sfondo, nella serie Love and Loss produco un inganno visivo, un camouflage pittorico dove l’elemento umano si fonde con il contesto ambientale e i soggetti, percepiti esclusivamente attraverso il loro contorno, sono un corpo in continuum con il paesaggio in un processo di fusione in cui il luogo si fa essere e l’essere si fa luogo. A livello formale la tavolozza pittorica è clonata dall’ambiente raffigurato nella fotografia: negli ultimi lavori realizzati a Milano i colori descrivono un paesaggio urbano in trasformazione, le tonalità sono mutuate dai muri erosi dal tempo, dalle fabbriche dismesse, dalla vegetazione selvaggia che si riappropria dello spazio».
N.M.: Recentemente, con Neith, hai infine affrontato il tema del rapporto tra arte e illusione. Come è nato questo lavoro e come si colloca nel tuo percorso artistico?
P.E.S.: «Nel corso dell’ultimo anno ho avviato un’indagine attorno ai concetti di limite e di errore: da queste tematiche ha preso vita una rassegna da me curata, Zèugma/ parlare e lagrimar vedrai insieme, che accoglie al suo interno opere sonore e video presentate simultaneamente, concedendo loro la possibilità di intersecarsi e dialogare generando inaspettate e imperfette modalità di lettura. In Neith l’errore è trattato come la manifestazione di un limite che permette però un ampliamento della visione. Il progetto parte da un aneddoto scientifico su un ipotetico satellite del pianeta Venere chiamato Neith, individuato erroneamente nel corso del XVII secolo per un difetto degli strumenti telescopici dell’epoca e traccia un parallelismo tra la figura dell’artista e quella dell’astronomo, entrambi accomunati dall’atto empirico dell’osservare. Nutrendosi di un immaginario scientifico filtrato dall’esperienza estetica, affronta il tema di una visione fallimentare, dell’abbaglio come apertura di possibilità».
N.M.: Il 30 settembre si inaugura la tua nuova personale, Ora Serrata, curata da Valeria Raho, dove presenterai dei nuovi lavori. Ce ne parli?
P.E.S.: «L’Ora Serrata è una parte del nostro occhio, una struttura che demarca il passaggio tra lo strato non fotosensibile da quello fotosensibile a più strati, ossia la retina. Questa zona liminale, interna al nostro occhio, si presenta come lo spazio ideale di azione della mostra. Ora Serrata da Villa Contemporanea a Monza sarà strutturata come un osservatorio scientifico attraverso cui fare esperienza dei limiti visivi: dagli inganni delle presunte osservazioni oggettive in ambito scientifico a quelle fisiologiche dell’occhio umano. Attraverso questo sguardo spurio emerge la volontà di osservare il mondo tramite un volontario accecamento, di munirsi di due occhi distinti che si spartiscono la luce. Accanto alla videoinstallazione Neith, ripensata per lo spazio della galleria, ci saranno nuovi lavori su carta di natura scultorea dal titolo Coring e alcuni contributi esterni di altri artisti e operatori culturali: dei veri e propri link addizionali a cui attingere per sperimentare livelli di lettura diversi della mostra, ad opera di Alessandro Di Pietro, NastyNasty ed Alberto Zanchetta».