La 43^ edizione della Fiac si è aperta nella consueta cornice del Grand Palais, con il desiderio di riportare vitalità in una città che nel corso dell’ultimo anno ha dovuto affrontare un drastico calo di turisti dovuto ai noti fatti di cronaca. Delle 186 gallerie presenti ben 43 sono state chiamate per la prima volta e 133 provengono da 27 diversi paesi, con una percentuale di gallerie francesi pari al 28%: dati che confermano tutta l’importanza delle presenze straniere per una grande e storica fiera internazionale.
L’impressione generale è quella di un’edizione basata sulla sicurezza apportata alle vendite dai grandi nomi del mercato internazionale, presenti in abbondanza con grandi opere di carattere museale: questo in parte a discapito della sperimentazione più recente, comunque ben rappresentata se si pensa alle proposte delle fiere italiane, spesso più legate alle mode dei cataloghi di case d’asta locali che all’arte contemporanea.
Un tour ideale della Fiac non può che partire dalla Francia
La Galerie Jérôme Poggi presenta uno stand monografico dedicato all’artista belga Wesley Meuris (1977). Le sue imponenti installazioni in forma di vetrina sono dedicate alla riflessione sulla nozione di “conservazione” e interrogano sulla definizione dei cosiddetti “spazi del sapere”: i musei e i laboratori scientifici vengono chiamati in causa con lavori di forte impatto visivo, a metà strada tra scultura e architettura.
La Galerie Vallois, una delle maggiori promotrici del Nouveau Realisme, presenta accanto ai grandi nomi di Tinguely, Arman o Niki de Saint Phalle una grande installazione di Pierre Seinturier (1988). Moltiplicando la stessa immagine da punti di vista differenti l’artista dà spazio alla narrazione di miti e racconti a metà tra realtà e finzione, con sequenze simili a riprese cinematografiche.
La Galleria Continua, fondata in Italia ma attiva anche nella sua sede francese di Boissy, presenta accanto ad opere monumentali di Kounellis, Kapoor o Pistoletto un’opera del camerunese Pascale Marthine Tayou (1967). L’artista, residente a Gent, non esita a rappresentare con i colori accattivanti tipici di un certo clichè occidentale temi quali la sofferenza o lo sfruttamento della manodopera nei paesi più poveri del mondo, con opere composte da assemblaggi di oggetti d’uso quotidiano.
Gallerie estere: i soliti nomi?
Le grandi gallerie internazionali hanno puntato molto sui nomi conosciuti e già presenti di diritto nella storia dell’arte, con qualche inserimento di artisti ancora da riscoprire: ed è interessante che molte scelte siano ricadute proprio su artisti italiani. La galleria Thaddaeus Ropac (Parigi-Salisburgo) presenta ad esempio, accanto a opere di Gormley, Cragg, Katz o Rauschenberg una grande tela del 1984 di Emilio Vedova (Di Umano ’84 – IV), artista il cui mercato appare in difficoltà ma la cui storia parla da sé.
Lo stesso dicasi per la galleria Marian Goodman di New York, che assieme ai grandi nomi di Gerhard Richter, Boltasnki o Baldessari presenta una grande tavola di Ettore Spalletti (1940), artista invece in forte ascesa nel mercato internazionale.
La galleria Isabella Bortolozzi di Berlino, forte di essere una delle poche gallerie ad aver creduto da tempo non sospetto nell’opera di Carol Rama, espone invece – in collaborazione col neonato omonimo archivio – storiche opere dalle serie dei Bricolages e delle Gomme: la grande mostra monografica dedicata dal Musée d’Art Moderne di Parigi nel 2015 ha contribuito alla riscoperta di questa grande artista, che solo ora sta uscendo dai margini del mercato con la sua notevole carica provocatrice.
Gli Italiani: tra secondo mercato e ricerca internazionale
Le gallerie italiane, a lato di mercanti che presentano impeccabili ma sonnolenti stand con lavori maggiori di artisti che si possono trovare in qualsiasi Italian Sale londinese (i soliti Fontana-Castellani-Bonalumi…), hanno qui cercato di mostrare il meglio del proprio catalogo, con selezioni spesso interessanti.
E’ il caso della P420 Gallery di Bologna, che dedica uno stand monografico all’impressionante serie di lavori su carta dal ciclo Trascrizioni di Irma Blank (1934), artista italo-tedesca. Meditate in un periodo – gli anni Settanta – di forte sperimentazione linguistica, le opere vanno alla ricerca dell’unità primordiale del linguaggio attraverso un ritorno al segno in sé, il cosiddetto Urzeichen. Il risultato ultimo è una scrittura che, come ha affermato l’astista stessa, non è legata al sapere ma all’essere, divenendone la sua manifestazione visiva.
La galleria Alfonso Artiaco di Napoli presenta invece uno stand legato a nomi internazionali riscoperti recentemente o ancora in piena ricerca artistica. Al primo caso è legato il nome di Niele Toroni (1937), rappresentante con Buren, Mosset e Parmentier dello storico gruppo BMPT e qui presente con una sua tipica opera dalle pennellate equidistanti (Empreintes de pinceau n° 50 répétées à intervalles réguliers de 30 cm). Al secondo si legano invece le differenti sperimentazioni di Ann Veronica Janssens (1956) e di Laurent Grasso (1972).
L’artista belga è interessata ormai da anni alla ricerca sui legami tra materiali di consistenze differenti (acqua, olii sintetici, solventi, plexiglass) e la loro rifrazione alla luce: ne nascono opere di notevole impatto visivo dalla notevole carica estetica. Grasso si pone invece nel solco della pratica artistica tradizionale con opere dalla forte connotazione classica che richiamano i fondi oro della pittura fiorentina medievale: l’intento rimane però il mettere in comunicazione l’arte occidentale con le altre culture del mondo. La migliore maniera per rappresentare il mondo di oggi, frammentato nelle sue differenze ma pur sempre riunificabile dall’arte, almeno durante qualche giorno di fiera.