Stefano Arienti (1961) appartiene a quella generazione di artisti italiani che hanno esordito a metà anni Ottanta, durante il pieno successo della Transavanguardia e che, un po’ a contrasto col “ritorno alla pittura” propugnato dal gruppo guidato da Achille Bonito Oliva, recuperò posizioni legate a Poverismo e Concettuale. Di quella generazione fanno parte anche Mario Airò, Liliana Moro, Massimo Bartolini, Luca Pignatelli, Monica Bonvicini, Eva Marisaldi, tutti nati nella prima metà degli anni Sessanta; il più famoso di tutti, Maurizio Cattelan, ha fatto storia a sé, come si sa. (Leggi -> Libri: Anni Novanta 1990-2015)
Uno strano destino accomuna molti artisti di quegli anni: cresciuti in un periodo in cui il mercato era in grande espansione e fioritura, furono molto sostenuti, fin da subito, da galleristi e mercanti, rientrando in quella generazione che si trovò immersa in maniera naturale in quella sorta di capitalismo selvaggio del mercato dell’arte sviluppatosi dalla fine degli anni Settanta. Nel libro Investire in Arte Contemporanea di Alberto Fiz, uscito nel 1995 (edito da Franco Angeli), troviamo un listino con le quotazioni medie (in galleria) di questi artisti: la forbice dei prezzi si aggirava tra i 2 e i 7 milioni di lire un po’ per tutti i nomi citati (la più giovane Vanessa Beecroft, nata nel 1969, rimaneva sotto i 3 milioni): l’equivalente di oggi, tenuto conto dell’inflazione, sarebbe 1.500/5.300 euro; tuttavia in quegli anni, con quelle cifre, si potevano acquistare belle opere anche di Maestri storicizzati (inclusi lavori su carta di Fontana, per dire).
Dunque una generazione sopravvalutata (a livello economico e forse anche critico) e “bruciata” troppo presto? Fatto sta che, al di là di vari nomi anche talentuosi oggi completamente scomparsi, molti dei più riconosciuti esponenti di quella generazione non hanno mai veramente “sfondato” ai massimi livelli della scena e del mercato internazionali, probabilmente anche a causa di una mancanza di reale sostegno a lungo termine da parte degli operatori italiani del settore, e di poca attenzione da parte del mercato secondario delle aste. In quest’ultimo contesto i lavori degli artisti sopra menzionati — sempre escluso Cattelan — raramente hanno spuntato più di 40.000 euro, con l’eccezione di un’impennata di Pignatelli a 105.400 euro a Milano nel 2009 (interessante che il record della Beecroft sia a sua volta oltre i 100.000 euro, ma si parla di una figura che, come Cattelan, ha fatto storia a sé e che, come lui, gode di un sostegno particolarmente potente). Per quanto riguarda Arienti, il record d’asta è stato stabilito nel maggio 2014 a Milano da Sotheby’s, con un Senza titolo del 1991 battuto a 31.250 euro; in galleria i suoi lavori si possono comprare, a seconda di tecnica e dimensioni, con una spesa tra i 5 e i 50mila euro. (Leggi -> Frieze 2016 e il ritorno degli anni Novanta)
Tutto questo non ha favorito una “musealizzazione” — nel senso positivo del termine — degli artisti della generazione di cui stiamo parlando, e quindi giunge particolarmente gradita la piccola, ma preziosa “antologica” che fino al 16 luglio la Galleria Civica di Modena, nella sede di Palazzo Santa Margherita, dedica ad Arienti (che pure vanta mostre personali al MAXXI, al Castello di Rivoli, al MAMbo, partecipazioni alla Quadriennale di Roma — dove nel 1996 vinse il Premio Giovani — e alle Biennali di Venezia, Istanbul e Gwangju, oltre che a collettive al Reina Sofia di Madrid, al Musée d’Art Moderne di Parigi e al MoCA di Chicago).
Un’unica grande sala con due salette attigue per proiezioni; non più di 18 opere (molte di grandi dimensioni) e 4 lavori video: la mostra, curata da Daniele De Luigi e Serena Goldoni, si intitola Antipolvere, e costituisce una vera e propria retrospettiva che spazia dal ciclo Gargantua e Pantagruel (da Dorè) del 1991 a Paesaggio (Veduta del Monte Sinai, da El Greco) del 2017, coprendo quindi più di 25 anni di attività di un artista direi unanimemente rispettato e apprezzato per la coerenza della sua ricerca e forse anche per l’umiltà nei confronti della “professione artistica”. Il titolo della mostra fa riferimento al materiale — il telo antipolvere da ponteggio — utilizzato come supporto in diversi dei lavori esposti, alludendo nello stesso tempo alla poetica dell’autore, che da sempre ha guardato alle opere del passato rivisitandole con un atteggiamento di rispetto ma anche di spregiudicata vitalità (non di rado sovvertendo gerarchie di valore ad esse usualmente riferite). Il lavoro di Arienti si è infatti spesso focalizzato sulla trasformazione di immagini preesistenti: un lavoro, svolto con rigorosa artigianalità, tramite cui queste immagini — fotocopiate, ricalcate, ridisegnate, ombreggiate parzialmente, delineate con forature ecc. — mutano il loro senso proprio nel rapporto ambivalente instaurato dall’artista con l’alterità del passato (lontano debito con i concetti di differenza, ripetizione e traccia elaborati da Gilles Deleuze e Jacques Derrida: non a caso due filosofi che ebbero un’enorme influenza sulla riflessione artistica degli anni Ottanta).
Nonostante l’esiguità numerica, le opere presentate in questa mostra ben rappresentano il percorso e i differenti ambiti d’azione di Arienti: si va da rivisitazioni di opere del Romanino, El Greco, Dorè, Escher a disegni rielaborati digitalmente; dai grandi teli dipinti con inchiostro oro a operazioni di collaborazione collettiva in cui il pubblico diventa partecipe del processo artistico (come per i cuscini de I nomi di Ciserano, 2001 o i vari Libri delle firme). La riflessione sul ruolo delle immagini nella società contemporanea, l’uso di materiali inconsueti spesso “poveri” ma come “rivalutati”, una poetica sostanzialmente concettuale non inficiano, in Stefano Arienti, il risultato estetico, spesso di un’eleganza quasi orientale, come questa mostra ben mette in luce.
Sempre alla Galleria Civica di Modena, ma fino al 7 maggio, segnalo poi un’altra mostra particolare: Alfabeta 1979-1988, a cura di Francesca Mora. Si tratta di opere originali, su carta o cartoncino, realizzate per la rubrica “Prova d’artista” della celebre rivista che negli anni Ottanta fu uno dei cardini del dibattito letterario, artistico e filosofico in Italia, e acquisite nel 1989 da parte della Galleria Civica allora diretta da Flaminio Gualdoni. Una cinquantina le opere realizzate da altrettanti artisti: si va da una bella matita del 1977 di Fausto Melotti al collage di Isgrò Sigmund Freud – Particolare ingrandito 867 volte del 1983; da Clessidra, Cerniera, Viceversa di Boetti (1985) a due bei Senza titolo di Gillo Dorfles, passando per autori come Scialoja, Dorazio, Baruchello, Paolini, Gilardi, Parmiggiani, Mondino ecc.