Cari amici, oggi chiacchieriamo insieme ad Alessandro Celli. Ve lo presento più o meno come l’ho conosciuto io. Non so se sarete d’accordo con quello che state per leggere, qualcuno sì e qualcuno proprio per niente. Quello che spero è che anche voi, come ho fatto io, ci riflettiate un pochino su, ma nemmeno troppo…
Alice Traforti: Caro Alessandro, non posso fare a meno di considerare la città in cui vivi: Brescia, una città antica e ricca di storia, una perla antropologica e architettonica, densa di contraddizioni come molte altre realtà, ma forte di una particolare tradizione di collezionismo – penso ad esempio alla storica Sincron. Come e quando ti sei avvicinato al mondo del collezionismo?
Alessandro Celli: «Dici bene. Armando Nizzi iniziò l’avventura del Centro Culturale Sincron quando io avevo però un anno, era il 1967. Quello era avanti – molto avanti – e non solo per Brescia, che a parte Massimo Minini e la sua galleria Banco aperta nel 1973, per il resto era molto lontana dall’arte contemporanea. Ma qualcosa recentemente sta cambiando: poche giovani gallerie si stanno finalmente muovendo bene anche qui. L’arte ho iniziato ad assaggiarla da ragazzo, ma per poterla digerire ho dovuto aspettare di poter spendere qualche soldo, facciamo circa vent’anni anni fa.
Collezionismo, dici? Lo associo ad un farmaco, di quelli con effetti indesiderabili quale una devastante controindicazione: l’assoluta implacabile assuefazione e dipendenza. Non cura, ma per lo meno ti fa sognare senza avere effetti psicotropi. Non si pagano le tasse su questo farmaco, ma se lo vuoi rivendere è come un farmaco scaduto, diciamo che almeno te lo sei goduto nella fase della somministrazione. Per chi crede di investire in farmaci, si trovi rimedi naturali… meno nocivi. E qualche volta può anche girare per il verso giusto, ma non ti cambia la vita, meglio lavorare seriamente, va, credimi. Cambia se invece fai il gallerista».
A.T.: Vuoi raccontarci qualcosa a proposito dei tuoi gusti e delle tue preferenze in fatto di collezione? Per esempio, di quali correnti e periodi, artisti storicizzati o emergenti, italiani o internazionali… appenderesti – o hai già appeso – alle pareti di casa tua.
A.C.: «Inutile dirti da dove sono partito, ben poco importa: chi non ha fatto e/orrori ai primi passi? Non ho mai conosciuto un collezionista di primo pelo mettersi a parete Ian Wilson, Andrè Cadere, Wolfang Laib, oppure Arnulf Rainer. Posso invece dirti che nel mio percorso ho approfondito le prime apparizioni di Lucio Fontana nel concettuale, con particolare riguardo ai buchi, che tuttora mi incantano rispetto ai tanto acclamati tagli. Ho dato sempre importanza all’arte povera degli anni settanta, con un occhio di riguardo verso l’incompreso Emilio Prini e l’elegante Giulio Paolini, ho messo in dialogo l’operatore culturale Ugo La Pietra con la poesia di Ketty La Rocca, di Gina Pane e di Francesca Woodman, non mi spaventano le reazioni di chi può vedere alcuni pezzi di Günter Brus, Rudolf Schwarzkogler e di Otto Muehl.
Mi piacciono anche i forti contrasti: Maria Lai accanto a Shirin Neshat e a Roman Opalka, non stancano mai. Uno spazio alla pittura lo lascio, ma affinché possa viverlo e leggerlo, preferisco dedicarlo a Gastone Novelli, Osvaldo Licini e alla scultura di Medardo Rosso o di Adolfo Wildt, ma anche di Claudio Parmiggiani. Del resto l’arte è un linguaggio con il quale dobbiamo confrontarci e non possiamo esimerci quindi da quello attuale, ma sui contemporanei preferisco non fare nomi, il collezionista, si sa, è piuttosto geloso e non ama dirti proprio tutto, eh?».
A.T.: La domanda che spesso sento tra i non amanti del contemporaneo, e dell’arte in generale, è questa: ma qual è il senso di appendere un quadro in casa? Ora, senza addentrarmi troppo in discorsi su cosa possa essere considerato arte e che cosa invece non lo sia, oppure su cosa sia davvero contemporaneo e attuale, io credo che si tratti soprattutto della risposta a una ricerca strettamente personale. Quindi, che cosa cerchi tu nel contemporaneo?
A.C.: «Se nella musica siamo riusciti ad apprezzare il dopo di Mozart, se nella letteratura non ci siamo fermati ai libri di Italo Calvino, non trovo ragioni per cui anche le arti visive in tutte le sue forme non possano andare avanti. E noi con essa. L’arte continua inesorabilmente e per fortuna di tutti. Se poi ci vogliamo fermare alla pittura di Squillantini, credo ci si perda qualcosa. Un artista che strappava manifesti (ossia Mimmo Rotella – ndr) disse “Vorrei che il pubblico capisse che l’arte non è abilità, ma un linguaggio creativo”. Ha sintetizzato tutto con una sola frase».
A.T.: Ed ora sveliamo il tuo lato di esperto conoscitore dei segreti in fatto di investimenti. Sei infatti moderatore del forum di finanzaonline, sezione investimenti in arte e collezionismo. Che impatto ha avuto la finanza nel collezionismo?
A.C.: «Non mi nascondo dietro un dito, il forum del resto è pubblico e tutti possono leggerlo, non essendo sponsorizzato da gallerie, da case d’asta, rimane ancora uno spazio libero. Sai bene come la penso sul sistema arte e sui giochi che attorno ad esso fanno diventar trottole i collezionisti, anche se in ‘sto gioco qualche volta ci guadagno pure io. La finanza entra dove i denari sono tanti, e l’arte ne muove davvero tanti. Si possono generare i tipici scenari della finanza, dalle bolle speculative a qualche inaspettato cortocircuito, e il collezionista di ciò è consapevole, almeno si spera.
Poi è chiaro che si perde la visione di prezzo e di valore: fa scalpore un record price e può alzare la febbre del collezionista incauto, se non riflette che dietro a quel record ci può stare un’operazione per far appunto alzar la febbre del mercato. Ma la temperatura rimarrà sempre alta? Il cosiddetto “affare” è più raro che un’opera rara, se solo pensi a quanti ci raccontano che vendevano i Boetti a cinque milioni di vecchie lire, ma contestualmente vendevano anche opere di cui oggi vale più la cornice che gli sta intorno».
A.T.: Dulcis in fundo: che cosa pensi del sistema arte di oggi?
A.C.: «Il mercato si è allargato. Paradossalmente un collezionista sfoglia cataloghi d’asta ogni mese ed in galleria ci entra sempre meno, legge più volentieri di critici e di “influencer” che trattano di mercato che non di arte. Essa ha sempre meno a che fare con la storia, i meccanismi sono diversi, il mercato guarda verso la legge della domanda e dell’offerta, quindi artisti di respiro internazionale potranno avere segnali di crescita con maggiori probabilità. Ergo, fra vent’anni tantissimi artisti rimarranno nella storia e nelle enciclopedie, ma potranno anche sparire dal mercato… e di conseguenza anche dai musei, anche questi non possono vivere solo di contributi statali, eh? Ed anche qui le sponsorizzazioni del mercato entrano a pieno titolo.
Georges Henri Rivière affermò che il successo di un museo non si valuta in base al numero di visitatori che vi affluiscono, ma al numero di visitatori ai quali ha insegnato qualcosa, ma oggi è più facile trovare questa forma di ecomuseo in casa di un collezionista che non in un luogo dove paghi il biglietto per entrare. In fondo collezionare è come indossare un abito: se ci devi vivere, con le opere, non puoi dimenticare che prima o poi un acquisto non a tua misura ti andrà stretto, e cercherai di collocarlo nella parete più nascosta.
Il percorso è personale e culturale, ma alla collezione una personalità gliela devi dare, per non ritrovarti dentro un magazzino di oggetti in cui non ti riconosci, con cui non dialoghi. Tu regalami un Douglas Huebler, un angolo in casa lo trovo ben volentieri, ma per chi ama l’estetica certo farebbe fatica a digerire il concettuale. È una realtà con cui un collezionista deve fare i conti! Varrebbe per il sottoscritto mettere a parete un’opera cinetica o analitica: mi dovrei rassegnare a trovare un luogo, magari dietro una porta, che non è bello, sai? Al di là di opinioni strettamente personali, collezionare arte è una bella avventura, direi divertente, per la continua ricerca che deve essere perseguita e costantemente arricchita».
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Sistema, mercato, storia… cosa pesa di più in una collezione?
E tutto questo, ha davvero un riscontro nella società di oggi?
Intendo proprio, ma cosa gliene può venire in tasca a un qualunque cittadino, come me e come te, o magari residente in quel di Brescia?
Certo non tutti potranno mettersi in casa dei chiodi di Günter Uecker… ma, forse, qualcuno potrebbe entrare in un museo o in una galleria a vedere una bella mostra e, magari, ne uscirebbe più ricco di chi ha le pareti di casa già ricoperte, persino dietro la porta.
Certamente, perché la ricchezza dell’arte non è esclusivamente finanziaria!
Forse non l’avevate capito?
Ringrazio Alessandro Celli e la sua pungente ironia: se non ci si diverte almeno un pochino, meglio smettere immediatamente l’assunzione di farmaci.