C’è poco da fare. Si sente che a Milano spira da tempo un certo vento di rinascita sconosciuto ad altre parti d’Italia. E lo si sente a maggior ragione in questi giorni di Art Week, con il sistema (mercato) dell’arte che, sempre molto sensibile all’andamento dell’economia, è letteralmente in fibrillazione.
Non solo per i tanti eventi in programma, ma per quel senso di brio primaverile che li anima. Così, dopo l’eccezionale serata di mercoledì a Palazzo Clerici, con la Milan Modern and Contemporary di Chrsitie’s che ha confermato il suo ruolo di evento clou del mercato italiano delle aste, ecco che ieri il giorno della preview di Miart 2018 è stato un vero e proprio momento di festa per gli appassionato d’arte. E non credo di andar troppo lontano dal vero dicendo che la fiera milanese – che oggi apre al pubblico – è ormai cresciuta a tal punto da potere essere considerata l’appuntamento fieristico più importante (e bello) del nostro Paese.
Da essere una “fierucola provincialotta” che scimmiottava Bologna, in pochi anni Miart è divenuta una realtà solida, rifondata su un progetto vero e, soprattutto, di respiro internazionale. E questo non perché tra gli espositori c’è un tal Gagosian, o qualche altro Ras del mercato globale. Ma perché entrando nel Padiglione 3 di fieramilanocity si respira l’aria di una fiera che sta al passo con i tempi, che ha la dignità curatoriale ed artistica delle sue “rivali” straniere.
Un risultato che, ovviamente, non arriva dal niente e che mostra l’importanza di una buona direzione artistica e di un comitato di selezione che sa fare il suo lavoro. Sia in termini di qualità dell’offerta richiesta agli espositori, ma anche di sostegno ad un’idea curatoriale che funziona solo con il supporto di tutti. Non temendo, così, di pretendere che le gallerie partecipanti si comportino come fanno nelle fiere all’estero: presentando stand di livello, con un progetto alle spalle.
Un progetto che deve rispecchiare, mi vien da dire, quello che è il ruolo culturale delle gallerie che si occupano di arte contemporanea, così ben sintetizzato da Tiziano Scarpa quando ricorda, appunto, che le gallerie hanno il compito vitale “di far sgorgare il presente, d’inventarlo e di prefigurare il futuro”. Oltre che, aggiungo – visto che qui l’offerta artistica parte dai primi del Novecento -, di farci guardare al passato con occhi nuovi, da esploratore. Per non fermarci davanti al “consueto”.
E così, girando per gli stand di Miart ci si imbatte in esposizioni dal taglio particolarissimo e in opere di qualità eccelsa. Come lo splendido bronzetto di Marino Marini che fa bella mostra di sé da Tornabuoni (Piccolo giocoliere,1953): una vero gioiello degno di un museo. Come molto bello è il “reticolo” del 1962 di Piero Dorazio allestito da Cortesi. Una chicchina che, pur nelle sue piccole dimensioni (47×38.5 cm), è un bell’esempio di quello che secondo me è miglior Dorazio.
Ma fin dall’inizio, la visita a Miart 2018 è un piacere intenso e, partito da Firenze con l’idea di fare un pezzo sui 10 stand o le 10 opere più belle della fiera, me ne torno a casa con l’impossibilità di farlo. Troppo sarebbe l’imbarazzo nella scelta. Certo, qualche zona d’ombra non manca, come la sezione Emergent, da sempre un po’ deboluccia e che anche quest’anno non brilla particolarmente. O scelte artistiche un po’ “ardite” per non dire discutibile, come quella di Robilant + Voena che in fiera ha portato un Consagra un po’ troppo variopinto per i miei gusti.
Ma d’altro canto, entrando nella sezione Generations – vero cuore della manifestazione – si rimane abbagliati da progetti allestitivi mirabolanti, come quello che vede alleate Mazzoleni e la potente Gagosian per un confronto tra il lavoro del nostro grande Alberto Burri e l’opera del “giovane” Sterling Ruby. Confronto che trova il suo punto di massima sintesi nell’angolo dello stand in cui convivono Sacco Bianco Nero (1956) e Cloven Hiker, ceramica del 2017 dell’artista tedesco.
Per non parlare del bellissimo dialogo che nello stand C32, curato dalle gallerie A Gentil Carioca e Andersen’s, si crea tra i lavori di Jarbas Lopes – famosa per le sue sculture performative e, più in generale, per i suoi progetti collaborativi e spiritosi che combinano aspirazioni utopiche e pragmatiche – e quelli di Tomàs Saraceno. Oppure, spostandosi nella sezione Contemporary, quello dello stand C17, che vede insieme l’israeliana Dvir Gallery e la romana Magazzino per un “canto polifonico” tra i lavori dei nostri Alessandro Piangiamore e Elisabetta Benassi e quelli di Mircea Cantor e Ariel Schlesinger. Probabilmente uno degli stand più belli di Miart per quanto riguarda il contemporaneo stretto, tallonato da quello della londinese Edel Assanti che presenta le foto di Noémie Goudal in combinazione con una delicatissima installazione di Jodie Carey: Stand (2017).
15 sculture verticali tratte dalla serie Earthcasts realizzate attraverso un antico processo di fusione che avviene direttamente nelle terra: Carey sotterra delle assi di legno di recupero e poi utilizza l’impronta lasciata nel terreno come calco in cui versare la malta. Un lavoro che, peraltro, mi riporta alla mente quello del nostro Giorgio Andreotta Calò solo che la Carey interviene direttamente sull’opera, sia prima che durante la fusione, incidendo e scolpendo il materiale e poi, con l’uso di grafite, generando suggestive ombreggiature, per una riflessione sul gesto artistico in sé e sulla monumentalità delle pietre erette.
Sempre in ambito scultoreo nella sezione Established molto intrigante è il dialogo che la galleria Montrasio Arte ha creato tra le opere di Giacinto Cerone e gli altri artisti trattati, da Alfredo Chighine a Fausto Melotti. Ed interessantissimo è il taglio “di ricerca” dato al suo allestimento dalla Otto Gallery che propone una serie di lavori “atipici” a firma di artisti come Paolo Icaro, Eliseo Mattiacci o Giuseppe Spagnulo. Di quest’ultimo, in particolare, è esposto un Paesaggio del 1947; una scultura a terra dove ritornano tutti i materiali cari all’artista scomparso nel 2016, ma utilizzati in modo del tutto nuovo, in cui l’elemento temporale è fortissimo e dove non manca una componente anche performativa, con lo sculture che per realizzare questo lavoro ha letteralmente camminato sull’opera, spezzando e frantumando; agendo come il tempo che scolpisce, appunto, il paesaggio.
Impossibile citare tutti gli stand che mi hanno colpito, per qualità e idee, durante la mia visita. Ma prima di lasciarvi non posso non citare il bel Solo Show che la Michael Werner ha dedicato all’opera dello scultore e pittore danese Per Kirkeby. O il delicato dialogo tra i lavori del belga Paul Gees, l’olandese Louis Reith e il nostro Marco Andrea Magni, creato dalla milanese Loom Gallery nel suo stand, confermando l’alta qualità della sua proposta: è una delle poche gallerie, mi accorgo, che cito sempre nelle mie recensioni.
Ci sarebbero poi l’omaggio a Mauro Staccioli della fiorentina Il Ponte che proprio in questi giorni, nella sua sede, inaugura un bella mostra dedicata all’artista scomparso a gennaio di quest’anno; la Galleria Mazzoleni con una bella selezione di lavori tra i quali spiccano quelli di Marc Chagall, Alberto Savinio, Giorgio De Chirico e Pablo Picasso presenti nella sala di destra dello stand. E così quello della Repetto Gallery che, tra le tante opere, ci propone anche un inedito confronto tra i libri di Maria Lai e quelli di Emilio Isgrò. O lo stupendo allestimento della galleria Gian Enzo Sperone, dominato da lavori di Julian Schnabel, Richard Long, Giulio Paolini e Wolfang Laib.
L’Anarchitetto Gianni Pettena è il protagonista nello stand della Galleria Giovanni Bonelli. E’ invece tutto dedicato a Lucio Del Pezzo l’allestimento dello Studio Marconi che presenta una serie di lavori realizzati tra il 1963 e i 1966 dall’artista di origini napoletane. Mentre Cardelli & Fontana ci invitano a riscoprire l’opera di Gian Carozzi, artista spezzino il cui nome compare tra i firmatari del Manifesto Spazialista, ma che poi è fuggito in Francia per sviluppare una ricerca tutta sua, lontano dalla ribalta del mercato.
E chiudo, questa volta veramente, citando lo stand della veneziana Galleria Michela Rizzo dove il lavoro di Fabio Mauri fa da “spalla” a quello di Federico de Leonardis che, per l’occasione, ha realizzato una installazione che unisce virtualmente vari suoi lavori: dai bassorilievi in marmo (come quelli delle Ossa di Shelley) alle opere realizzate con materiali di riuso trovati principalmente nelle cave – dagli attrezzi ai cuscini idraulici utilizzati per lo sbancamento dei blocchi -, riportati a nuova vita ed utilizzati per portare avanti una personalissima ricerca sulla violenza, quella del gesto, delle reazioni, degli individui.
Insomma, Miart 2018 è una fiera vera, nel senso contemporaneo del termine; una fiera da vedere e dove gli espositori hanno chiaramente qualcosa da dire, storie da raccontare e da far scoprire; dove non c’è spazio per la “quadreria” da mercatone. Una fiera che, assieme ad ArtVerona, continua a crescere fresca e solida insidiando quello che era il primato di Artissima. E questo è quello che serve alle gallerie e ai collezionisti che, sempre di più, hanno nelle fiere un importante punto di riferimento. Avanti così.