Nella sua carriera ha realizzato gomme bicromate, stampato su vecchie carte baritate, realizzato esperimenti alla Luigi Veronesi, alternato la sua Lupa Fantuz alla Impossibile e alla Original Polaroid. Senza demonizzare il digitale. Perché per lui la fotografia è “puro piacere in tutte le sue forme”. Sto parlando di Euro Rotelli, una delle personalità più particolari della scena fotografia italiana, spesso criticato per un linguaggio non immediatamente riconoscibile e troppo “eclettico”, ma che in realtà nasce da un approccio all’arte fotografica decisamente coerente e solido che lungo la sua carriera ha dato vita ad un lavoro fotografico affascinante e di rara intimità.
Di origini maremmane – ed è forse da qui che nasce una sua certa taciturna caparbietà – Euro Rotelli inizia come pittore per poi dirigersi verso una fotografia mai banale e spesso ispirata, in modo molto particolare, alla letteratura. Sì perché quando ritrae un luogo “conosciuto” attraverso un testo letterario, Rotelli non crea semplicemente una trasposizione fotografica della visione dello scrittore, ma lavora su quell’immagine mentale che solo letteratura sa ancora creare nella testa di chi legge, scardinando le regole di una società dell’immagine dove tutto sembra un po’ “stereotipato”.
Nasce così, ad esempio, l’ultimo dei suoi lavori dedicato alla Banlieue Saint-Denis/Aubervilliers, una delle periferie parigine più turbolente. Quella, tanto per capirsi, da dove sono partiti i terroristi del Bataclan e dello Stade de France e che Rotelli comincia a frequentare inizialmente ispirato da La reclusion solitairea romanzo del 1976 dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun per poi legarsi in modo più profondo al lavoro dello scrittore afghano Atiq Rahimi. «Mi piaceva l’idea di sviluppare questo progetto con lui, partendo proprio da quelle periferie che tanto si avvicinano al suo modo di scrivere – mi spiega al telefono -. Ho così iniziato così a frequentare le periferie di Parigi e la cosa che mi colpì maggiormente erano dei cartelli con scritto Permis de démolir (permesso di demolire) che poi hanno dato il nome al progetto».
«Parlando con gli abitanti di Saint-Denis/Aubervilliers – prosegue, tracciando un racconto che la dice lunga sulla sua pratica artistica -, questi mi spiegarono che stavano per demolire tutto e ricostruire. E allora mi sono chiesto se si trattasse solo di una demolizione fisica delle abitazioni o di quella stessa comunità fatta di immigrati. La zona di Saint-Denis/Aubervilliers è un luogo pieno di contraddizioni, dove a case fatiscenti e baracche, si alternano belle abitazioni, alberghi».
«E’ iniziato, così, un confronto serrato con gli abitanti e i rappresentanti delle associazioni – prosegue il fotografo -, ho iniziato a scattare e a cercar di capire, di catturare, il loro modo di vivere. Sono entrato in contatto con magrebini, algerini, marocchini e abbiamo iniziato un progetto di documentazione di questa demolizione, testimonianza di un quartiere che veniva abbattuto nell’attesa di una nuova rinascita, ma anche delle difficoltà di persone che adesso, pur nella speranza di un nuovo futuro, dovranno reinventarsi una nuova vita».
E le fotografie di Permis de démolir ci mostrano questi due volti: una nuova popolazione che sta lavorando, bambini che giocano con noncuranza, madri che vivono le loro ultime ore di sofferenza nelle vecchie case fatiscenti mentre si preparano a partire. Dagli scatti emerge un senso di nostalgia misto ad un sentimento di esilio, di timore, alla sensazioni di essere in procinto di perdere quel quartiere col quale giovani e anziani hanno rimodellato la propria identità. Le foto di Rotelli, infatti, ci dicono che quello “sradicamento” sta anche ripiantando semi, costruendo, dando una seconda vita, certamente diversa, ma reale e attuale. In un mix che unisce speranza e orgoglio a queste persone, proprio come Atiq Rahimi fa nei suoi romanzi parlando della sua sfortunata terra. E la sintonia tra l’autore afghano e il fotografo italiano è infatti divenuta fortissima, tanto che qualche mese fa Rotelli ha avuto anche modo di ritrarlo.
Già, “Sintonia”, è questo probabilmente il leitmotiv di tutto il lavoro di Rotelli. Sia che racconti la New York di Paul Auster, con lo scrittore che diviene il suo “Virgilio”, aiutandolo così a cogliere negli scatti quelle stesse sensazioni che la città gli aveva trasmesso attraverso la trilogia dell’autore americano. Sia che realizzi uno dei suoi bellissimi ritratti.
«Quando fatto un ritratto cerco sempre di cogliere la persona – mi spiega -. Non faccio il classico ritratto da studio. Uso un solo punto luce con sessioni che dureranno al massimo un quarto d’ora e cerco subito di concentrarmi sul personaggio. Parlo con lui e scatto. Altrimenti sarebbe un andare a cercare qualcosa di finto. Alla base di tutto quello che faccio c’è sempre un profondo lavoro di documentazione». Nascono così ritratti particolarissimi come quello dello scrittore Krüger Michel o di Paco Ignacio Taibo. Ma sono tantissime le personalità del mondo della cultura e dello spettacolo che sono state immortalate da Euro Rotelli. E il ritratto è forse una delle espressioni migliori del “metodo” che sottende a tutti i suoi lavori, anche quando questi sembrano decisamente molto distanti tra loro.
E così, parlandomi della sua pratica artistica commenta: «Nella mia ricerca fotografica, ho da sempre indagato e interpretato la figura umana, che per me costituisce quasi un’ossessione, una perenne curiosità di conoscere e riproporre secondo la mia personale visione, questo soggetto ancora così misterioso e arcano, nonostante la facilità e disinvoltura estrema con cui il corpo viene oggi invece presentato e proposto. Nella mia pratica fotografica non mi pongo mai il problema del mezzo. Il primo passo è sempre il progetto come nel caso di The Body The Soul, un progetto a cui sono legatissimo perché mi ha permesso di trovare quello che cercavo: l’anello di congiunzione tra il corpo e l’anima, l’estrema sublimazione della fisicità umana”.
Nel suo interpretare i drammi e le storie dei ballerini ritratti in tutto il mondo, The Body The Soul rappresenta, infatti, una sorta di summa artistica della produzione di Euro Rotelli, della sua capacità di entrare in “sintonia” – ancora – con il soggetto da raccontare e della sua vena più sperimentale che lo vede ingaggiare dei veri e propri corpo a corpo con la Polaroid, da sempre il suo mezzo espressivo di partenza.
«Occupandomi anche di fotografia pubblicitaria – mi racconta – ho sempre usato la Polaroid come test e i miei ritratti li scatto ancora così, prima in Polaroid e successivamente in pellicola. Poi capita, come in The Body The Soul, che inizio a sperimentare, a modificarne la chimica. Penso di averla usata in tutti i modi possibili. Quello con la Polaroid è veramente un legame particolare. Seppur in modo amatoriale, ho iniziato la mia carriera artistica dipingendo e solo dopo ho iniziato a fotografare. La Polaroid è quella che mi ha permesso di unire la pittura alla fotografia. E per questo mi sono sposato con questo mezzo».
Ma nonostante questo amore per la Polaroid e la pellicola, Rotelli non è di quei fotografi che si schiera contro il digitale. «Analogico o digitale? Il mezzo resta un mezzo e una brutta foto… resta sempre una brutta foto, sia che tu la scatti in digitale o in analogico». Mi dice visibilmente divertito dalla domande un po’ scontata che gli ho fatto e poi prosegue: «Dipende tutto dal progetto che devo realizzare. In certi casi il digitale è più comodo. Mentre per le foto di paesaggio è troppo immediato e preferisco lavorare con il banco ottico e la pellicola. Quando fotografo dei paesaggi sono attratto dai grandi spazi in cui io sono un granello di sabbia davanti all’immensità e per questo mi porto dietro la mia Lupa Fantuz, creata da un mio amico, Olimpio Fantuz. La pellicola è più rallentata e come se guardassi una quinta teatrale. Altra cosa è, poi, la Polaroid che ti permette di intervenire direttamente sulla pellicola per avere un effetto pittorico. Quando guardo nel mirino della mia reflex, invece, già manipolo la foto e così col digitale che, sinceramente, non rifiuto in quanto tale. Va però usato con intelligenza».
«Il problema – prosegue – è che la tecnologia crea situazioni accattivanti e spesso le persone non capiscono il lavoro del fotografo. Tutti pensano di poterlo fare, mentre la preparazione è importantissima anche nel ritratto se vuoi tirar fuori la personalità di una persona. Altrimenti cadi nel lavoro di studio, tecnicamente perfetto ma freddo. Sta qui la grande differenza tra una semplice riproduzione del reale e la fotografia. Una riproduzione oggi sono tutti in grado di farla, ma una bella foto è un’altra cosa».