Tracciare un bilancio di questa edizione di ArteFiera è particolarmente difficile. Nonostante i pochi mesi a disposizione, Simone Menegoi è certamente riuscito ad imprimere alla più vecchia fiera d’arte del nostro Paese un suo segno. Ma la kermesse bolognese rimane ancora un evento in cerca di una sua identità forte e che oggi sta vivendo un nuovo anno “zero”.
Un giudizio vero e proprio sul lavoro del nuovo direttore artistico lo potremo dare in modo più definito il prossimo anno. Quando capiremo se quello che oggi ci pare un delicato alberello possa essere in grado di metter sù radici sufficientemente forti per sostenere il passo delle altre fiere italiane che in questi anni sono cresciute molto e bene.
Per il momento, di questa edizione 2019 di Arte Fiera, disertata da molti collezionisti rimasti forse scottati dal passato, credo si possa dire tranquillamente che è frutto di un egregio lavoro di “ripulitura” che le ha donato un impianto più coerente e godibile, da cui traspare quel disegno curatoriale drammaticamente mancato, invece, negli ultimi anni. E se la decisione di contingentare il numero di artisti in ogni stand ha forse scontentato chi già si presentava in fiera con allestimenti selezionati e che oggi si è trovato a dover lasciare in magazzino qualche nome di punta; è anche vero che ha costretto tutti gli espositori a mettersi alla prova.
L’effetto finale, anche se talvolta intimidito da scelte poco coraggiose, è così quello di tante piccole mostre con alcuni solo show decisamente interessanti, che non sempre ammiccano al mercato mainstream, preferendogli l’anima più di ricerca del collezionismo nostrano. Come nel caso della milanese Osart Gallery che qui a Bologna ha portato una personale di Phil Sims, esponente di spicco del gruppo dei Radical Painters, o la galleria Conceptual che in fiera propone alcuni lavori di Robert Rauschenberg degli anni Settanta come quelli delle serie Early Egyptian o la tiratura Sand che campegna all’ingresso dello stand.
Visitando il padiglione 26 del polo fieristico bolognese – quello dedicato, per capirsi, al moderno -, colpisce subito la scarsa ripetitività degli stand. La “cura Menegoi”, oltre alle sconfortanti “quadrerie” del passato, si è portata via anche tanti tormentoni. Solo un paio i Bonalumi che intravedo degli stand, di Castellani praticamente nessuna traccia. Giusto Fontana è più presente. Segno che il messaggio arrivato dal collezionismo e dalle sale delle case d’asta nostrane è chiaro: si compra se c’è qualità, l’appeal delle opere minori di artisti di “brand” è decisamente in calo. Insomma: Arte 1 – Mode 0.
E così, mentre l’Analitica batte in ritirata e l’arte cinetica e programmata trova spazio solo negli stand realmente specializzati – uno per tutti quello della 10 A. M. Art di Milano che però si trova nel padiglione 25 con un solo show di Franco Grignani -, la proposta si fa più varia che in passato.
Gli unici artisti presenti in modo un po’ più “ossessivo” si può dire siano Dorazio, che sbuca un po’ ovunque – i lavori più belli sono però, a mio avviso, quelli esposti da Mazzoleni -, confermando un trend che si era visto anche nelle aste del 2018, e Mario Schifano il cui mercato sembra sempre essere in procinto di ripartire ma che, invece, si infrange sulla confusione che da troppo regna attorno alla sua opera. Al terzo posto Giorgio De Chirico, del quale si possono ammirare vari lavori in almeno tre stand.
Tra le opere più interessanti che si possono apprezzare quest’anno nel padiglione 26 alcune carte di Boetti presenti nello stand di Matteo Lampertico. Opere che aprono agli aspetti più concettuali del lavoro dell’artista torinese scomparso nel 1994. O il superbo monotipo di Emilio Vedova tratto dalla serie In Continuum che incontro nello stand della Galleria dello Scudo. Unico esemplare dei 110 teleri che compongono la serie ancora sul mercato e appartenente alla produzione degli anni Ottanta dell’artista veneziano. A cui la galleria veronese dedicherà un solo show a Miart 2019.
Tra le delicate sculture di Fausto Melotti portate in fiera da Repetto, affiora una preziosa selezione di lavori di Osvaldo Licini tra i quali un’Amalassunta gialla del 1951 che tanto ricorda quella esposta nella recente mostra alla Collezione Guggenheim di Venezia e che è stata usata anche per la copertina del catalogo.
Tra i vari lavori presenti nello stand dello Studio Guastalla, trovo deliziosi quelli di Emilio Isgrò della metà degli anni Settanta, tra i quali il delicatissimo ed ironico Immaginare di Haendel (80x80cm) del 1975. Molto raffinato anche il lavoro di Gregorio Botta che incontro nello spazio della Galleria Studio G7 e la cui ricerca si focalizza sui concetti di trasparenza e di fragilità, lavorando con materiali come la cera, l’alabastro, il vetro e la carta.
Tutto dedicato a Munari lo stand della Galleria Granelli dove saltano all’occhio un piccolo Negativo-Positivo del 1951 e un paio di Xerografie di metà anni Settanta. Poco più in là, da Russo, troviamo l’unico Donghi della Fiera: Lavandaie, opere del 1922 che, stando al bollino rosso, potrebbe essere stata la prima vendita di questa edizione, peraltro piuttosto avara di soddisfazioni commerciali nella giornata di preview. Mentre dal Chiostro, dove è protagonista Ugo La Pietra, troviamo anche un piccolo ma pregevole lavoro di Mimmo Rotella del 1957.
Schifano a parte, a rappresentare nel modo migliore la Pop Art romana è certamente Giosetta Fioroni a cui dedica uno stand monografico Spirali dove, accanto alle sue figure d’argento, spicca la tela del 1967 Le Cortigiane (da Carpaccio).
E stupendo è il Vaso di Fiori con Natura Morta del 1937 di Filippo De Pisis portato in fiera da Proposte d’Arte, assieme a una selezione di opere veramente pregevole che vede, tra i protagonisti, anche Gino Severini con una serie di lavori degli anni Quaranta e Cinquanta.
Sempre nel padiglione 26, infine, da segnalare l’interessante focus che la galleria Biasutti & Biasutti ha dedicato a Gianfranco Baruchello. Si tratta di una vera e propria mini-retrospettiva che merita tutta la vostra attenzione.
Un po’ più debole, in generale, è invece la proposta del padiglione 25, quello che dovrebbe essere dedicato al contemporaneo più stretto, ma dove non mancano presenze “storicizzate”. Tra queste trovo eccezionale la proposta della Galleria Clivio che porta una serie di lavori di Lamberto Pignotti degli anni Cinquanta che contengono in nuce già tutti gli elementi di quella che, un decennio dopo, sarebbe stata la cosiddetta Poesia Tecnologica poi chiamata Poesia Visiva. Si tratta di una serie di riproduzioni pubblicitarie di disegni di Grandi Maestri su cui l’artista ha apposto delle strisce di nastro-carta con scritte frasi che entrano in dialogo con l’opera creando una sorta di piccolo cortocircuito comunicativo. Una vera chicca per chi ama il genere.
Venendo al contemporaneo vero e proprio, un po’ di coraggio in più non sarebbe guastato, ma a Bologna la tentazione ad appiattirsi su una proposta “soft” è sempre forte e nonostante una sezione molto “art-veronizzata” i colpi di luce non sono moltissimi. Tra questi, i lavori di Silvia Infranco da Marignana di cui propone alcuni Tracciati e Metaforme, tra i frutti più maturi della sua ricerca che si sviluppa osservando come differenti superfici organiche rispondono ad accadimenti mnemonici.
Memoria che è al centro anche delle delicatissime e intime opere di Maria Elisabetta Novello esposte da Anna Marra Contemporanea. Un’artista, la Novello, estremamente coerente nel suo lavoro senza però cadere mai nel tranello della ripetizione. E basta guardare i lavori tratti dalle serie Impressioni, Sopralluoghi e D’ouvrage d’or per capire cosa intendo.
E’ questi tutta al femminile la proposta artistica più interessante che trovo nel padiglione 25: dagli ultimi lavori di Nazzarena Poli Maramotti esposti da A+B Gallery a quelli di Elisa Montessori proposti dalla romana Monitor.
Fino ad arrivare alla sezione di fotografia, con molta probabilità la più interessante della fiera, dove spiccano i lavori della rumena Loredana Nemes di cui Podbielski Contemporary propone una serie di scatti della serie 23197, recentemente esposta alla Berlinische Galerie e incentrata sul tema della paura: attraverso l’ausilio di una lente sfocata le fotografie ritraggono una serie di camion, avvolti da un’atmosfera straniante che rimanda ai recenti attentati terroristici.
Tema questo che ritroviamo anche nel lavoro di Antonio Ottomanelli, Spectres of Now, esposto da Km0: una sorta di “planisfero” realizzato con cassoni pieni di asfalto che mostra l’incidenza del terrorismo nelle varie parti del mondo, facendo risaltare una realtà ben diversa da quella che spesso traspare dalla cronaca, che vorrebbe un occidente sotto attacco, quando ad essere dilaniate da questo fenomeno sono decisamente altre aree che spesso ignoriamo.
Molto bello, infine, anche qui a Bologna, lo stand della Galleria Nicola Pedana che agli ormai noti e apprezzatissimi Paolo Bini e Matteo Montani, ha recentemente iniziato ad affiancare l’opera raffinatissima di Ivano Troisi. Anche in questo caso un artista in costante evoluzione che, secondo me, merita seguire. Insieme, questo trio, ha dato vita ad un dialogo sul paesaggio molto intrigante e tutto da scoprire.