La Sezione Specializzata in materia d’Impresa del Tribunale di Roma, con la recentissima sentenza n. 13461 del 26 giugno 2019, ha dichiarato inammissibile la domanda finalizzata al mero accertamento della non autenticità di un’opera d’arte.
Il caso in ispecie ha avuto come protagonisti, da una parte, la Fondazione Keith Haring e, dall’altra, una galleria d’arte italiana
assistita in giudizio dall’Avv. Lavinia Savini.
In particolare, la fondazione, con sede negli U.S.A., ha chiesto al giudice italiano l’accertamento della non autenticità di alcune opere esposte in Italia in occasione di alcune mostre organizzate dalla galleria, lamentando, altresì, la lesione dei diritti d’autore di cui è titolare.
Il collegio giudicante ha accolto pienamente l’eccezione sollevata dalla difesa della galleria, nel solco di alcuni rari analoghi precedenti giurisprudenziali, circa l’inesistenza nell’ordinamento italiano di un autonomo “diritto all’autenticazione”, nonché l’assenza di un potere declaratorio di autentica (o di non autentica) configurabile in capo all’autorità giudiziaria, affermando che «l’azione di accertamento non può avere ad oggetto, salvo i casi eccezionalmente previsti dalla legge, una mera situazione di fatto, ma deve tendere all’accertamento di un diritto che sia già sorto, in presenza di un pregiudizio attuale e non meramente potenziale».
Ciò significa che è possibile richiedere all’autorità giudiziaria l’emissione di un provvedimento volto ad acclarare determinate circostanze di fatto a condizione che queste comportino un vantaggio o una lesione (a seconda che si tratti di accertamento positivo o negativo) concreta ed attuale, e non potenziale, all’interesse sostanziale che la parte deduce in giudizio.
L’unico soggetto deputato a stabilire l’autenticità di un’opera d’arte, ha rimarcato il Tribunale, è soltanto l’artista che l’ha realizzata.
Il diritto di attestazione dell’autenticità non spetta neppure agli eredi dell’artista defunto. Questi ultimi, quali titolari dei diritti morali d’autore riconosciuti loro dagli artt. 20 e 23 della Legge Italiana sul Diritto d’Autore, sono legittimati a rivendicare la paternità di un’opera realizzata dall’artista e a lui non attribuita, ma non hanno altresì la facoltà di agire in giudizio per ottenere una mera dichiarazione di autenticità (o non autenticità) delle sue opere.
Alla morte dell’artista l’autenticità delle opere può essere semplicemente oggetto di vari expertise, più o meno qualificati, che possono essere da chiunque rilasciati nell’esercizio di un diritto alla libera manifestazione del pensiero (art. 21 della Costituzione).
Procedere, pertanto, ad un accertamento in termini di verità in sede giudiziale si concretizzerebbe soltanto nel conferimento di maggiore valore a un determinato parere a discapito di un altro, producendo così un’alterazione delle peculiari dinamiche che contraddistinguono il mercato dell’arte.
Altra interessante tematica analizzata nella decisione in esame riguarda l’utilizzo essenzialmente descrittivo del marchio costituito dal nome dell’artista e di cui la fondazione è titolare.
Il Tribunale, in accoglimento di quanto eccepito dalla difesa della galleria, ha acclarato come, nel caso in esame, l’utilizzo del segno da parte della galleria convenuta non possa essere ritenuto lesivo dei diritti della fondazione poiché trattasi di fattispecie rientrante nelle ipotesi di uso lecito del marchio.
In tal caso, infatti, il marchio non è stato illecitamente utilizzato per contraddistinguere beni e servizi altrui, ma usato con funzione prettamente descrittiva (art. 21 del Codice della Proprietà Industriale) delle opere presenti in mostra.