La sua ultima mostra, Plastitype, curata da Roberta Pagani presso la galleria Van Der di Torino, chiuderà i battenti domani dopo aver presentato, per circa un mese, i suoi lavori più recenti e alcuni interventi inediti. E’ Cristiano Tassinari, trentatré anni, originario di Forlì ma ormai fuggito, come tanti suoi colleghi, in quel di Berlino, ed è considerato, a ragione, uno degli artisti più interessanti del panorama contemporaneo italiano.
Attratto dalle relazioni che instauriamo con le cose e i materiali di ogni giorno, nella sua nuova ricerca artistica – come spiega la curatrice della sua personale torinese – Tassinari «non si limita a descrivere attraverso forme sintetiche e minimali, ma invita a fantasticare dentro a una schematizzazione quasi poetica, fatta di linee (visiva) e punti (focali), di metafore (le forme), di metonimie (i colori) e via dicendo. Il suo post-modernismo consiste nel recuperare la tradizione di figurazione e tecniche, sia pittoriche che scultoree, per applicarne poi il principio del grado zero, l’astrazione, e da lì ripartire nella costruzione sia di forme che di immagini».
Una versatilità, quella dimostrata da Tassinari nello sperimentare molteplici tipologie di media che, creando fraintendimenti semantici tra i vari linguaggi utilizzati, viene utilizzata per mettere in ordine elementi che vogliono esplicitamente interrogare lo spettatore. Il risultato è una sintesi in cui l’elemento astratto diviene un codice attraverso il quale interpretare la realtà secondo una visione che lo avvicina al pensiero di Primo Levi che, nel suo quinto romanzo, Il Sistema Periodico, scriveva: «Vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi».
Collezione da Tiffany lo ha raggiunto a Berlino per intervistarlo e farsi raccontare il dietro le quinte del suo lavoro e i suoi progetti futuri.
Nicola Maggi: Cristiano, nei tuoi lavori, gli stilemi della storia dell’arte incontrano l’oggetto quotidiano per una serie di recuperi stilistici e formali che entrano in risonanza tra di loro e con il pubblico, creando, allo stesso tempo, pause e contrasti semantici al limite dell’astrazione. Da quali considerazioni parte la tua riflessione sulle relazioni di senso che si creano tra materiali e linguaggi artistici differenti?
Cristiano Tassinari: «Quello che mi interessa è che lo “statement” dell’intervento non sia gratuito o superficiale, ma che sia portatore di senso. Non credo però che generare significati attraverso l’arte sia qualcosa di statico e monodirezionale. La scelta di materiali e tecniche diverse è il primo passo nella creazione di lavori che molto si basano sul fraintendimento semantico. Un fraintendimento che apre degli spiragli e dona una certa libertà e leggerezza alle opere».
N.M.: E’ solo una sensazione o, rispetto alla mostra Lichtraum di tre anni fa, le parti che compongono Plastitype sembrano aver trovato un equilibrio interno maggiore in cui gli elementi astratti, come la griglia, dialogano in modo più “sereno” con le fotografie e gli oggetti comuni che inserisci nell’installazione?
C.T.: «La mostra Lichtraum è stata molto importante per verificare alcune possibilità legate al processo espositivo. In quell’occasione presentavo per la prima volta oggetti appartenenti a un linguaggio scultoreo-riduzionista insieme a dipinti e wall paintings. In Plastitype ci siamo ulteriormente spinti oltre, non ci siamo posti vincoli e penso che il risultato sia molto interessante».
N.M.: Con il progetto Be Clear! dello scorso anno ti sei confrontato con il tema dell’acqua, inteso come simbolo di limpidezza, nelle azioni e nelle relazioni, siano esse private o sociali, produttive e culturali. Quanto è presente, di quella riflessione, nei tuoi ultimi lavori?
C.T.: «Nel progetto di Rovereto Be Clear! ho cercato di creare un parallelo tra l’attitudine fisica dell’acqua e il mio fare artistico, ho quindi seguito la linea di minor resistenza esplorando la complessità della forma tridimensionale nello spazio espositivo e come diversi media entrassero in dialogo e risonanza tra loro».
N.M.: Pittura, installazione e fotografia rimangono i cardini del tuo lavoro a cui si è aggiunto recentemente il readymade che però tu usi in modo particolare, senza rimuovere completamente la “memoria” dell’oggetto…
C.T.: «Sì, in effetti sono molto affascinato dagli oggetti che non richiedono alcuna manipolazione. Nella mostra ho usato retini e pattern grafici, profilati di alluminio e pannelli di cartongesso o polistirene. Sono tutti materiali che mi piacciono per le loro qualità cromatiche e di lavoro in potenziale. La peculiarità dei colori dei materiali edili è poi tanto più bizzarra visto che sono tutti elementi destinati a essere nascosti da altre strutture o rivestimenti».
N.M.: La tua prima personale si intitolava Mnemosyne, dove presentavi un intervento di 26 incisioni che componeva un vero e proprio repertorio di ritratti frutto di progressive sovrapposizioni di materie, tecniche e supporti. Un lavoro complesso, in cui si potevano cogliere, già allora, riferimenti che spaziavano da memorie passate a quelle presenti della storia dell’arte. Che importanza ha la memoria nella tua riflessione artistica?
C.T.: «Sicuramente è molto importante, anche se devo dire che il mio sguardo si è recentemente volto verso tematiche più contemporanee, quel lavoro lo sento molto lontano. Mi interessa una presa di coscienza sulle cose del quotidiano, sulla mia generazione e quello che mi circonda».
N.M.: Che importanza ha, nel tuo approccio, il pensiero di filosofi come Hans Jonas che in Il principio di responsabilità ci richiama alla necessità di agire in modo tale che gli effetti della nostre azioni siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana?
C.T.: «Trovo che, in generale, la relazione che instauriamo con le cose, con gli elementi e i materiali della quotidianità e della vita, sia molto interessante. Tanto più è interessante osservare come cambia di posto in posto. Acqua e cibo, elementi quotidiani nella vita di ogni “occidentale” in altri posti, come ho visto recentemente in India, diventano necessità spesso difficili da soddisfare. In questo credo che sia stato l’Occidente ad aver avuto una grossa responsabilità riguardo le gestione e lo sfruttamento delle risorse».
N.M.: Mnemosyne, Lichtraum, Be Clear!, Plastitype… quale sarà la prossima tappa del tuo lavoro?
C.T.: «Sto lavorando ad un progetto per il Castello di Rivara. La particolarità della mostra risiede nella possibilità da parte del pubblico di trascorrere una notte nella stanza che accoglierà l’intervento. Il progetto si chiama Hotel ed è curato da Roberta Pagani».
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