Nel 1924, un giovane medico francese di nome Louis-Ferdinand Destouches, pubblicò la propria tesi di laurea dedicata alle importanti innovazioni nel campo dell’ostetricia apportate dal medico ungherese Ignác Semmelweis.
All’epoca, molti parti erano funestati dal sopravvenire di un’infezione batterica nota come “febbre puerperale”, che necessitava di pesanti cure antibiotiche che spesso non evitavano una morte dolorosa alla paziente.
Il medico ungherese, tra l’ironia e lo sdegno dei suoi colleghi, ebbe un’illuminazione che rivoluzionò la scienza medica: comprese che l’infezione era evitabile con un accurato lavaggio delle mani e della unghie.
Una piccola curiosità: la tesi del giovane medico è estremamente interessante per lo stile.
Qualche anno dopo, con lo pseudonimo di Louis-Ferdinand Céline, lo stesso pubblicò Voyages au bout de la nuit (Viaggio al termine della notte), uno dei romanzi più rivoluzionari del secolo scorso.
Se dovessimo trarre una morale da questa storia, potremmo dire che prevenire è meglio che curare, e che spesso prevenire richiede soluzioni di ovvia semplicità rispetto alle possibili cure. Anche perché non si può escludere che queste ultime abbiano effetti collaterali anche irreversibili.
Tra il 1949 e il 1950, Cesare Brandi pubblicò un articolo nel quale senza mezzi termini, criticava i metodi di pulitura messi a punto dei restauratori della National Gallery, estremi e senza considerazione per quella che lui definiva “patina” – la stratificazione delle velature e delle vernici invecchiate al di sopra della superficie pittorica – che rimuovevano integralmente e snaturando, quindi, la natura dell’opera in maniera irreversibile.
Stiamo parlando della cosiddetta “cleaning controversy”, un serrato botta e risposta che coinvolse i restauratori d’oltremanica e, in un secondo momento, persino Ernst Gombrich.
Due scuole di pensiero, quella “brandiana” e quella “inglese”, che si differenziavano nel presupposto di riconoscere il valore che il tempo ha sulla materia che compone l’opera d’arte: conservare ed eventualmente ristabilire questa integrità è compito dei restauratori, dei soprintendenti, e finanche dei collezionisti privati, che se effettivamente ne detengono la proprietà immanente, non sono proprietari di quella trascendente, usando la terminologia propria della metafisica, che è di pubblico dominio.
La morale che abbiamo tratto dalla storia raccontata all’inizio di questo articolo è che prevenire è meglio che curare. L’integrità di un’opera d’arte, ben prima dell’intervento conservativo proprio del restauro, può essere salvaguardata da azioni che lo prevengono: si parla oggi di “conservazione preventiva” intendendo con questo termine quelle pratiche che agiscono preservando, ovvero proteggendo, l’opera, la sua integrità materiale e storica, senza andare a toccarla direttamente.
Monitoraggi ambientali, certo, ma anche protezione da atti vandalici, da furti e spoliazioni. In questo modo, la figura del restauratore è chiamata a una specializzazione ulteriore, a una preparazione che esce decisamente dalla sfera artigianale che ha caratterizzato grosso modo questa figura sino a pochi anni fa, per abbracciare quella di “scienziato”, o comunque di un professionista con una spiccata sensibilità scientifica, in grado di dialogare coi collezionisti, coi musei, con tutte quelle istituzioni che alla preservazione sono chiamati da un compito di vitale importanza per l’umanità: proteggere la cultura.