Parlando di conservazione di una collezione non possiamo prescindere dal citare qualche evento accidentale e spiacevole ai danni delle vostre opere. In particolare la questione si fa interessante qualora ad essere danneggiata sia un’opera d’arte contemporanea il cui artista creatore della stessa sia ancora in vita.
Se questo dovesse accadere il vostro primo istinto sarebbe quello di riportarla a chi ve l’ha venduta (normalmente una galleria o una casa d’aste) per chiedere un consiglio sul da farsi o, se l’avete acquistata dall’artista, di contattare lui direttamente.
In quest’ultimo caso, potrebbe succedere che l’artista vi suggerisca di rivolgervi al suo restauratore di fiducia (probabilmente attento conoscitore della sua tecnica e dei materiali da lui utilizzati).
Altre volte, invece, lo stesso artista potrebbe decidere di mettersi all’opera per sistemare il danno e risolvere la problematica insorta, qualunque essa sia. Qui due scenari si prospetteranno al vostro orizzonte: il danno è “semplice” (ad esempio perché puramente strutturale) e con poche e minime accortezze tutto si risolve e torna (quasi) come nuovo; oppure il danno è più complesso (perché magari coinvolge parti estetiche e pittoriche) e allora ecco che sorgono criticità etiche interessanti che coinvolgono l’essenza stessa dell’opera.
Se in passato, infatti, la figura del restauratore era rivestita dagli artisti che, in quanto esperti di tecnica e di materiali, restauravano le opere di altri artisti o addirittura le proprie, con l’era moderna e con lo svilupparsi del dibattito sul tema del restauro dell’arte contemporanea si è giunti alla consapevolezza che tale pratica possa comportare un reale rischio di modificazione dell’opera stessa.
Così, importanti esperti di restauro di opere di arte contemporanea sono giunti alla conclusione (senza dubbio condivisibile) secondo cui – sebbene il parere dell’artista sia fondamentale durante il restauro di un’opera – questo dovrà rispecchiare il suo pensiero al momento esatto dell’esecuzione dell’opera stessa e non al momento del restauro, così da evitare possibili ripensamenti dell’autore sulla propria opera.
L’artista infatti, in virtù della propria manualità, intrinsecamente legata al suo gusto estetico e alla sua libera immaginazione, tenderà sempre a riprendere opere vecchie con un tratto della mano e un guizzo artistico mutato con il passare degli anni.
Nessun artista, infatti, realizza le stesse identiche opere per tutta la vita ma piuttosto evolve il proprio occhio, modifica il proprio utilizzo dei materiali e il tratto utilizzato, con il tempo si affina, si specializza, scopre nuove tecniche e guarda il mondo attraverso nuovi filtri. Così, inevitabilmente, mettendo mani nuove su un’opera vecchia, l’artista automaticamente la modificherà secondo il proprio nuovo gusto personale.
Al contrario, un restauratore professionista, sarà un soggetto terzo rispetto all’opera da restaurare, in grado di analizzare in maniera oggettiva il messaggio e la tecnica originale dell’opera nel momento storico in cui essa è stata concepita e intervenire senza lasciarsi coinvolgere da valutazioni di gusto personale e desiderio di evolvere l’opera.
L’idea di coinvolgere l’artista durante questo processo, tuttavia, non va completamente scartata ma va piuttosto mediata: sarà infatti il restauratore a consultare l’artista, ad intervistarlo e a raccogliere da lui le specificità dell’intenzione originale che sta alla base dell’opera.
Inoltre, come anche il mio collega Francesco Niboli raccontava nel suo articolo di ottobre “Quello che gli artisti non dicono”, l’artista è il miglior conoscitore della propria tecnica e dei materiali che usa e nessuno meglio di lui potrà raccontare della materia dell’opera. Sarà poi il restauratore, raccolte le informazioni utili sulla tecnica, ad analizzare il degrado e ad ipotizzare soluzioni per un restauro a regola d’arte, senza rischiare di modificare il tratto artistico originale.