Mi sono chiesto spesso, scrivendo le mie cronache dall’Europa e da oltreoceano, se e quanto io non sia in grado di capire l’arte delle ultime generazioni. Nei miei articoli parlo spesso di artisti contemporanei sì, ma ormai di una certa età, se non anche già scomparsi (e quindi, tecnicamente, non più contemporanei!).
Confesso di avere una predilezione per l’arte che dal secondo dopoguerra arriva agli inizi del nuovo millennio, ma posso assicurarvi che visito spesso anche mostre di artisti giovani, trovando tuttavia molto di rado qualcosa da dire a proposito.
Come ho già ribadito diverse volte, penso che uno dei grandi problemi della produzione artistica di questi ultimi anni sia il fatto che vengano spesso riproposte o addirittura replicate idee e visioni abbondantemente esplorate già vari decenni fa, e la domanda che mi pongo è se il problema sia l’ignoranza degli artisti, l’ignoranza o la malafede dei loro sponsor (galleristi, critici, curatori), l’ingenuità degli acquirenti — o tutto questo insieme.
Altro problema si pone quando invece il giovane artista azzecca un’opera e da allora ne fa una sorta di marchio di fabbrica riconoscibile, replicandola all’infinito, probabilmente con la benedizione del suo gallerista («L’unica involuzione è la reiterazione»: una frase che amo citare).
In realtà potrei elencare un certo numero di artisti under/around 50 che mi interessano molto: da Joana Vasconcelos (1971) e Marzia Migliora (1972) a Anne Imhof (1978) e Adelita Husni-Bey (1985); da Allora & Calzadilla (rispettivamente n. 1974 e 1971) e Tomàs Saraceno (1973) a Urs Fischer (1973) e Alicja Kwade (1979); da Lucilla Candeloro (1978) e Giorgia Severi (1984) a Richard Mosse (1980) e Carolina Piteira (1990), per fare esempi anche molto diversi tra loro.
Un numero esiguo, lo confesso. Ma infine — suvvia — di grandi artisti (quelli che “rimarranno”) non ne nascono che pochissimi per decennio, checché voglia tendenziosamente suggerirci il mercato, e a malapena stiamo iniziando a farci un’idea riguardo agli attuali settantenni o giù di lì.
Mi è venuto da ripensare a tutto questo visitando la recentemente inaugurata Biennale del Whitney Museum, slittata di un anno, come moltissime altre manifestazioni, a causa della pandemia. Intitolata Quiet as It’s Kept (un’espressione gergale analoga alla nostra “il segreto di Pulcinella”), curata da David Breslin e Adrienne Edwards, presenta opere di 61 artisti più 2 collettivi di varie nazionalità — inclusi, tra l’altro, cinque appartenenti a tribù native americane — ma tutti residenti o operanti negli Stati Uniti, Canada e Messico. L’età media degli artisti si aggira sui 47 anni (e vi sono anche cinque artisti scomparsi prematuramente).
Se la precedente edizione della Biennale era stata un vero e proprio trionfo della bruttezza (il titolo redazionale — non mio — dell’articolo che avevo scritto all’epoca per “Collezione da Tiffany” recitava, icasticamente: Ma quanto è brutta la Biennale del Whitney Museum), qui, a un certo punto, mi è venuto da pensare: “Non c’è nulla da scrivere su questa rassegna”. Perché quando hai opere di grande valore, o al contrario lavori orrendi, è facile trovare cose da dire, commenti da fare. Il peggio è quando c’è una piattezza assoluta, che non stimola commenti di alcun tipo. E questa Biennale, per grandissima parte, più che quiet è semplicemente noiosa.
Con qualche impennata improvvisa, tuttavia, soprattutto nel campo della fotografia: bellissime le foto di Mónica Arreola (Messico, 1976) della serie Valle San Pedro e quelle della californiana Guadalupe Rosales (1980), come pure il progetto fotografico di Buck Ellison (1987) su Erik Prince, il fondatore di una private military company (ossia un’agenzia di mercenari, detto in soldoni) ritenuto da alcuni un criminale di guerra.
Per quanto riguarda la pittura, le opere più interessanti sono forse l’enorme trittico Mountains Walking di Leidy Churchman (1979) e Displaced Burial/Burial at Gorée di Denyse Thomasos (Trinidad e Tobago, 1964, morta a New York nel 2012).
Poche invero le cose del tutto inguardabili (segnalerei in negativo North American Buff Tit di Eric Wesley e The will to make things happen di Woody De Othello); per il resto, molte parole d’ordine (migration, displacement, community engagement…) nei cartellini che ci spiegano cosa dovremmo capire dell’opera, e che tuttavia non suppliscono alla povertà o elementarità dell’opera stessa.
Interessante il video di animazione Long Low Line (Fordlandia) di Danielle Dean (1982), con un sottile sostrato concettuale, e quello a quattro canali Descent into Hell di Jacky Connolly (1990), come pure What about China? di Trinh T. Minh-ha, che però è in pratica un film documentario (di 135 minuti di durata!). E, a proposito di video, vi sono diverse opere di denuncia sociale e storica (soprattutto riguardo alla situazione dei black people e dei nativi americani), ma spesso purtroppo di poca rilevanza estetica: la loro collocazione sarebbe decisamente migliore in una rassegna documentaristica.
Concludo però con una delle opere più belle di tutta la rassegna: 06.01.2020 18.39 di Alfredo Jaar (1956). Si tratta di una installazione immersiva che fa rivivere “dall’interno” allo spettatore gli eventi accaduti a Washington il 1° giugno di due anni fa, quando — sei giorni dopo la tragica morte di George Floyd — una protesta pacifica del movimento Black Lives Matter in Lafayette Square fu dispersa dalla polizia, su ordine del Procuratore Generale William Barr, per permettere lo scatto della famigerata foto davanti all’adiacente St. John’s Episcopal Church di Donald Trump debitamente bibbiamunito. Furono utilizzati gas lacrimogeno, granate stordenti, proiettili di gomma e perfino due elicotteri a bassa quota, quest’ultima cosa peraltro proibita dalle convenzioni internazionali.
Alle immagini girate durante la manifestazione, con l’audio originale a volume quasi reale, si aggiungono grandi ventilatori che, dall’alto, simulano l’effetto degli elicotteri bassi sulla folla. In questo caso l’elaborazione del video è molto bella ed efficace, la durata breve — pochi minuti — e giusta per mantenere l’impatto emotivo (e fisico) senza disperderne la potenza.
La Biennale si articola su due piani, il 5° e il 6° del museo, più il 3° piano dedicato alle edizioni Cassandra, che si occupano dei problemi della società connessi a razzismo e sessismo. L’elegante allestimento del 6° piano contrasta completamente con l’open space caotico e dispersivo del 5°: forse una scelta, che sinceramente non comprendo. L’esposizione si concluderà il 5 settembre.