Il 7 marzo di otto anni fa si spegneva, a Milano, Gustavo Bonora, artista, intellettuale ed esponente di rilievo della scena artistica milanese degli anni Sessanta assieme ai colleghi Mino Ceretti, Claudio Olivieri, Giuseppe Guerreschi, Alik Cavaliere e Emilio Tadini con i quali, come ha recentemente ricordato il critico Massimiliano Castellani, contribuisce a “erigere un ponte culturale che, dalla Galleria Solferino, univa la scena di Milano a quella di Londra e New York”.
Alla sua (ri)scoperta è dedicata, ancora per tutto il mese di maggio, una piccola ma significativa retrospettiva curata da Alice Rabbi – con il coordinamento della vedova di Bonora, Rosy Menta – che, negli spazi della Medina Art Gallery di Roma, ripercorre la sua carriera dagli anni Cinquanta ai primi anni Duemila – Gustavo Bonora. Artista Controcorrente –. Una mostra che non ha mancato di attirare la curiosità del pubblico degli amanti dell’arte sopresi dal suo lavoro come lo fu Mario Perazzi, nel 1977, tanto da scrivere sul Corriere della Sera: “Alla Solferino, una sorpresa: le fascinose tele di Bonora, chissà perché così poco noto”.
Un quesito che oggi torna a imporsi attraversando la soglia della Medina. Impossibile, infatti, non cedere a quello stesso fascino che non mancò di colpire anche un giovane Flavio Caroli il quale, sempre sul Corriere scriverà: “Un lavoro di notevole qualità e presa emotiva, concepito per diaspore spaziali di elementi ambigui, fra pure allusioni segniche e precise definizioni naturalistiche: sassi, ciottoli, quasi il greto di un fiume che fa “muro” davanti all’occhio. Sono infatti “paesaggi proiettati”, forme naturali che “informalmente” (e questa è infatti la radice culturale dell’artista) trovano la loro collocazione in uno spazio appunto “proiettato”, cioè impaginato secondo l’inquadratura di un mezzo meccanico. È curioso l’incontro fra un uso della materia che potrebbe richiamare il nome di Burri (soprattutto il Burri dei legni) e un’analisi spaziale legata alle ricerche di Fontana. Ma è soprattutto significativa l’invenzione di questo paesaggio ambiguo e meccanico, invenzione che catalizza il lavoro di un gruppo ben definito di pittori milanesi”.
Sperimentatore vero, mosso dall’esigenza di approfondire, attraverso lo sguardo sull’uomo, la realtà fenomenica e la complessità esistenziale ed intellettuale, Gustavo Bonora era nato a Bologna nel 1930 ed è nella città felsinea che consegue il diploma di Maturità Artistica (1947) per poi spostarsi a Firenze dove si iscrive alla Facoltà di Architettura.
Nove anni dopo, nel 1956, grazie alla borsa di studio ottenuta dal “Collegio Venturoli” di Bologna si trasferisce a Milano, dove è assistente dello scenografo Luciano Damiani del Piccolo Teatro, attività che si protrae fino agli anni Sessanta, quando, nel fervido clima culturale milanese di quei giorni stringe le amicizie e le relazioni che decideranno il suo destino artistico – Attilio Forgioli, Gianfranco Pardi, Lello Castellaneta, Attilio Del Comune, Gianni Rossi -, coloro coi quali parteciperà a Società Nuova l’iniziativa impegnata ad illustrare le tematiche di Brecht e Majakovskij, nonché il sodalizio che nel Settanta li aggrega intorno alle gallerie che allora erano dei veri focolai progettuali.
Nel lungo percorso di Gustavo Bonora si intrecciano arte, musica jazz e psicoanalisi. Interesse, quest’ultimo, che lo allontanerà per lungo tempo dal mondo delle mostre – mai da quello dell’arte – per tornarvi solo in tarda età, quando espone nel 2010 alla milanese Officina Coviello. I primi passi prendono le mosse dal Realismo esistenziale per arrivare, negli anni Settanta alla svolta che lo porta, come ha giustamente evidenziato il critico Luigi Marsiglia, verso “un’arte mentale più che astratta, di un’arte simile a una terapia umana di scrittura cromatica”.
La realtà, d’altronde, come ha scritto nel 1966 Mario De Micheli, “non è per lui un dato pacifico, garantito, solida oasi d’immobilità, è invece centro di urti e di conflitti, di energie in movimento. L’uomo non è per lui un’astratta sintesi di valori: è invece un nodo dialettico operante, attivo nella realtà che si lacera alle sue punte e che tenta nel medesimo momento storico di ricostruire il proprio tessuto umano con ostinata passione”.
Caratteristiche che gli hanno garantito, fin dagli esordi, un gran numero di estimatori tanto che sue opere sono presenti in varie collezioni pubbliche – come quelle del Collegio Venturoli di Bologna, del Mu.Sa. di Salò o del Museum der Stadt Greifswald in Germania – e private. È il caso, ad esempio, di quelle di Alberto Sandretti, di Mario De Micheli o di Duilio Zanni.
Recentemente alcuni suoi lavori sono passati in asta raggiungendo aggiudicazioni apprezzabili considerata la sua lunga assenza dal mercato. Oggi, in galleria, i suoi lavori su tela sono proposto con quotazioni che vanno dai 2.000 euro per le opere di piccolo formato degli anni Sessanta e Settanta, ai 6.500 euro per i lavori più grandi degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta.
Le opere degli anni Novanta e Duemila, invece, hanno un range tra i 1.200 e i 4.000 euro. Le carte, molto interessanti, si collocano in una fascia di prezzo di 200-300 euro. Dal 2016 la sua opera è curata e valorizzata dall’Archivio Gustavo Bonora che ne sta realizzando il catalogo ragionato.