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‘El intento instantáneo y pasajero de la fantasia’. Goya pittore e filosofo

del

Nel suo saggio su Goya come pittore emblematico dell’Epoca dei Lumi, Tzvetan Todorov dice che “l’immagine è pensiero non diversamente da quello espresso attraverso le parole e rappresenta sempre una riflessione sul mondo e sugli uomini. Che ne sia consapevole o meno, un grande artista è un pensatore di alto livello”.

Francisco Goya y Lucientes è stato un pensatore di alto livello in quanto grande artista e grande artista in quanto macinatore di idee, come ebbe a definirlo Laurent Matheron, uno tra i suoi primi biografi.

Fu pittore nell’epoca più sconvolgente della moderna storia europea, quella a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, il lungo Ottocento. Un’epoca contraddittoria a cui Goya tastò il polso, producendo un’arte tanto frivola quanto tragica

Un’epoca i cui drammi si ripercossero in maniera quasi psicosomatica sulla sua stessa salute fisica. Goya divenne sordo nel 1972, proprio mentre lo spettro sanguinario degli orrori giacobini cominciava ad aleggiare su tutta l’Europa. Orrori provocati dalle armi ma anche da quelle idee funeste che suscitano la disperazione connaturata alla dimensione umana.

Del resto, lo storico dell’arte e iconologo ungherese Hans Sedlmayr, nel suo emblematico saggio La perdita del centro, pone l’opera di Goya, specialmente quella che segue il manifestarsi della malattia, tra i sintomi dello tsunami che travolse la società europea a cavallo dei due secoli, e la cui risacca lasciò a riva la modernità in tutte le sue declinazioni: politiche, sociali, scientifiche, economiche e artistiche.

Non sorprende, quindi, che il pittore spagnolo sia stato in grado di anticipare idee e concetti che sarebbero entrati nella sensibilità comune molto tempo dopo.

Nonostante si esprimesse attraverso le immagini, Goya ha lasciato in eredità un notevole corpus di scritti: lettere, sia personali che più formali, discorsi formulati pubblicamente e trascritti da altri, relazioni tecniche e missive di varia natura.

Lungi dall’essere un artista solitario, il pittore fu sempre molto ben inserito negli ambienti del potere spagnolo. Introdotto a corte dal cognato Francisco Bayeu, si costruì una buona fama dipingendo i cartoni per gli arazzi prodotti dalla fabbrica di palazzo. Dopo un importante soggiorno a Roma, nel 1786 venne nominato pintor del rey da Carlo IV, il suo più grande mecenate.

Fu re Carlo a commissionargli, nel 1800, un sopralluogo ai restauri eseguiti su una serie di tele della collezione depositata nel palazzo del Buen Retiro di Madrid. È per noi rilevante una lettera inviata al segretario di Stato don Pedro Cevallos nei primi mesi del 1801, nella quale il pittore esprime le sue perplessità proprio riguardo agli interventi eseguiti sulle tele, testimoniando una sensibilità assolutamente moderna riguardo alla conservazione delle opere d’arte, all’epoca disciplina priva di teorizzazione e ancora affidata a pittori comuni e non a maestranze specificatamente formate.

“In ottemperanza all’Ordine Reale che Vostra Eccellenza si è compiaciuta di comunicarmi il 30 dicembre scorso, al fine di essere informata sul restauro dei dipinti commissionato a don Ángel Gómez Marañón, riconoscendo quelli che egli ha passato in tele nuove e quelli che ha pulito e rinfrescato, e elencando i vantaggi o gli svantaggi che i dipinti possono subire a causa di questa soluzione, esaminato il metodo e la qualità degli ingredienti usati per conferire lucentezza, devo spiegare a Vostra Eccellenza che, essendomi subito presentato al Buen Retiro, ho visto e considerato con la massima attenzione l’operato di quel pittore [che eseguiva i restauri, n.d.r] e lo stato dei quadri, tra i quali per primo mi è stato mostrato quello di Seneca, che era in corso di pulitura ed aveva già per metà recuperato la sua lucentezza e brunitura.

Non posso riportare a Vostra Eccellenza la dissonanza che mi ha causato il confronto delle parti ritoccate con quelle non ancora toccate, poiché nelle prime il brio e il coraggio dei pennelli e la maestria dei tocchi delicati e sapienti dell’originale erano scomparsi e completamente distrutti rispetto a quelli conservatisi nelle seconde. Con la mia naturale franchezza, animata dal sentimento, non nascondevo al restauratore quanto ciò mi sembrasse brutto. 

Poi me ne furono mostrati altri, e tutti ugualmente deteriorati e corrotti agli occhi dei veri intelligenti, perché oltre ad essere assodato che quanto più i dipinti vengono toccati con il pretesto della loro conservazione, più sono distrutti, e che anche gli stessi originari autori, rinascendo ora, non potrebbero ritoccarli a dovere a causa del tono uniforme dei colori che il tempo dona loro, poiché anche esso dipinge, secondo la massima e l’osservazione dei saggi. Se ne deduce che non è facile trattenere l’intento istantaneo e passeggero della fantasia e la concordanza profusa nella prima esecuzione.”

Da una prima lettura di queste righe si potrebbe pensare che Goya fosse sostanzialmente contrario al restauro dei dipinti. In realtà, non esistendo ancora una specifica disciplina del restauro, è più corretto dire che Goya fosse contrario al ripristino di un presunto aspetto originario dell’opera d’arte perseguito attraverso l’eliminazione dei segni del tempo come patine e ingiallimenti. 

Un concetto più che acquisito dalle odierne teorie del restauro, ma che, nel caso di Goya, tradisce grande capacità di visione e grande rispetto per l’unicità dell’opera d’arte, che nasce non solo dalla capacità tecnica dell’artefice ma anche da el intento instantáneo y pasajero de la fantasia, quindi insostituibile e non replicabile nemmeno dallo stesso autore.

La disciplina del restauro è figlia dell’Epoca dei Lumi, nel senso che è nata in seguito al salto di paradigma mentale che l’uomo europeo ha subito in quell’epoca e che ha portato alla creazione del modo di percepire il mondo che influisce ancora oggi su di noi. Goya, allora, non poteva sapere con precisione cosa sarebbe successo, ma come tutti i veri filosofi era in grado di percepire che qualcosa sarebbe successo

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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