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Pesaro

dal 2012 il primo blog dedicato al collezionismo d'arte.

Collezionare è divertirsi 

del

Ogni collezione d’arte potrebbe essere paragonata ad una costellazione, dove le opere sono le stelle e il collezionista è l’immaginaria linea che le unisce per darle una forma e un nome. Un collezionista tiene uniti, con le sue scelte, gli artisti e le loro pratiche creando un insieme che solo lui potrebbe tenere legato e spiegare. L’attenzione di un osservatore, proprio come quando si vedono le stelle, a volte può essere catturata dal luccichio delle opere, e degli artisti, altre volte è la luce magnetica dei collezionisti richiamare lo sguardo e la curiosità. 

Giobatta Meneguzzo, nato a Priabona (frazione di Monte di Malo in provincia di Vicenza) nel 1928 e morto nel 2021 è una di quelle figure, fra i collezionisti, che a distanza di anni emana ancora la propria luce. Ci ha pensato Francesca Interlenghi, critica e docente allo IED, nonché curatrice e performer, conterranea di Meneguzzo, a scrivere un libro molto originale in cui ha messo in gioco anche le proprie passioni, e ossessioni per l’arte e la scrittura, riuscendo a raccontare l’attitudine di un singolare collezionista.

Non a torto, rileggendo la biografia di Meneguzzo si potrebbe dire che egli è anche un simbolo della storia del territorio veneto, passato dalle difficoltà finanziarie del dopoguerra al riscatto sociale ed economico. L’originalità del libro sta anche nella struttura dei capitoli in cui non solo si leggono le vicende di Meneguzzo in maniera cronologica, ma in cui vengono alternate interviste e approfondimenti sull’arte suggerite di volta in volta dalle vicende narrate in ogni capitolo.

Per questo motivo, ma non solo, “Mi sono tanto divertito!”, volume edito da Allemandi, è un libro che non solo dovrebbe leggere ogni collezionista, ma che è consigliato anche ai giovani artisti e a tutti gli appassionati di arte, perché ciascuno troverà una storia che ispira e rinnova l’entusiasmo per un ambiente che sembra complicarsi sempre di più a discapito del piacere della scoperta.

Collezionare spesso è anche come il gioco infantile della caccia al tesoro, dove il tesoro più che l’opera in sé, almeno nel passato sembrava che fosse l’incontro con le persone del mondo dell’arte, che ora chiamiamo sistema dell’arte o art world. Leggere e scrivere di Giobatta Meneguzzo significa fare i conti con un altro genio di Malo, lo scrittore Luigi Meneghello che ha regalato alla nostra letteratura un capolavoro come “Libera nos a Malo”.

Proprio Meneghello è stato il primo ad accorgersi di come stava cambiando l’Italia e il mondo in generale, con il benessere economico post-guerra, quando “tutto si trasforma così in fretta che non si è più sicuri di nulla”. Per questo vale la pena approfondire l’attitudine al collezionismo di Giobatta facendo qualche domanda a Francesca Interlenghi.

Salvatore Ditaranto: Leggendo il tuo libro si ripercorre la storia di un percorso di vita che unisce la provincia al mondo. Giobatta Meneguzzo, geometra appassionato di architettura e arte, nato in una frazione del comune di Malo in provincia di Vicenza, riesce a portare il mondo, non ancora globalizzato, a casa sua attraverso l’arte contemporanea, e viceversa. Oggi sembra tutto più vicino ma quando ha iniziato Giobatta deve essere stata una cosa da pioniere. Cosa ti ha colpito maggiormente nella tua ricerca?

Francesca Interlenghi: Mi ha colpito la sua inesauribile curiosità, sostenuta da una tensione vitalistica che lo ha portato a condurre un’esistenza fuori dagli schemi e dalle convenzioni, specie quelle rigide di una provincia al tempo arcaica. La sua postura nei confronti della vita è stata, e sarà sempre per me, un grande insegnamento. Da Giobatta ho imparato che l’andare a zig zag, l’inciampare e concedersi la libertà di saltare da una suggestione all’altra è ciò che rende l’esperienza del vivere straordinaria, perché sorprendente. Se all’età di 8 anni, davanti a quel quadro a tema religioso dipinto da un parente della madre su una tela di ombrello rotto, non avesse accolto la magia dello stupore, aprendosi all’ignoto, tutta la sua avventura non sarebbe incominciata. Si va incontro alle sorprese col cuore aperto e la testa sgombra da pregiudizi. Di Giobatta mi ha colpito la capacità di usare il sentimento come forma cognitiva, una forma di conoscenza che non procede in maniera logico-razionale, ma per via diretta ed empatica. 

S.D.: Una cosa che si percepisce dalle parole che riporti di Giobatta Meneguzzo, ma soprattutto degli artisti che lo hanno incontrato e frequentato, è quanto fosse vitale il rapporto personale con gli artisti. Penso a Riello, a Marco Nereo Rotelli, ma anche ai suoi rapporti con Nanda Vigo e a tutti coloro che lo hanno frequentato. Ci parli di questa socialità? 

F.I.: Giobatta non ha mai rinunciato alla relazione dialogica con gli artisti, mosso com’era dalla volontà di partecipare alle idee e alle poetiche del proprio tempo, di essere fisicamente parte del flusso degli eventi, di trovarsi e intervenire insieme con altri. A suo figlio Marco ripeteva sempre, come un mantra: “Cerca di esserci perché presenza e tempo, a volte, sono fondamentali”. Nel libro scrivo che a differenza del Kublai Kan, di cui narra Calvino ne Le città invisibili, Giobatta non si atteggiava ad annoiato e malinconico Signore di Ogni Cosa. Non necessitava di viandanti per animarsi di sensazioni. Non aveva bisogno di aspettare Marco Polo per nutrirsi di meraviglie e attese di piacere. Per fuggire alla lenta pietrificazione del mondo, per scampare allo sguardo inesorabile della Medusa, gli bastava la piccola comunità caotica che spontaneamente si radunava intorno alla sua dimora. Capace insieme a lui di creare forme, segni, narrazioni e gesti. Ciascuno a suo modo, erano artisti. Viaggiatori alla pari. Ho sempre pensato che quella socialità fosse anche un modo per tenere il Male e la Morte fuori dalle mura del suo Castello, in altri termini: fuori dalla grande sfera della sua vita.

S.D.: Non possiamo parlare di Giobatta Meneguzzo senza parlare de “Lo scarabeo sotto la foglia”, l’idea di una casa per la sua collezione, o comunque il suo desiderio di costruire una casa contemporanea, che potesse esprimere il proprio tempo, come fa l’arte. Puoi anticipare ai nostri lettori cosa troveranno nel tuo libro su questa casa speciale?

F.I.: Anche la sua abitazione, ovviamente, non si sottrae alla logica dello stupore che ha informato tutta la sua vita. Nel 1964 Gio Ponti mette a disposizione dei lettori della rivista “Domus”, alla quale Giobatta si era da tempo abbonato, il progetto di una casa unifamiliare di forma simile a un coleottero e un tetto a foglia bassissimo. Con un gesto apparentemente ardito, che nemmeno lui capisce ma proprio perché insondabile lo affascina tantissimo, scrive al grande architetto e si aggiudica il progetto di quella che diventerà non solo la sua dimora, ma anche il luogo deputato a custodire la sua collezione di opere uniche e un naturale catalizzatore delle istanze della contemporaneità. Un crocevia di artisti, tra cui Nanda Vigo che progetta gli interni con un insolito mix di ceramica e peluche. Le cronache dell’epoca, che danno conto anche del perturbante evento inaugurale orchestrato da Giobatta, l’happening del 1969 “Dies Irae” a cura di Tommaso Trini e con la partecipazione, tra gli altri, di Leo Treviglio, uno dei componenti del Living Theatre, sono uno spaccato netto e profondo di un pezzo di storia del nostro Paese. “Con una casa a vela è arrivata la rivoluzione” intitolavano i giornali, riferendosi a quell’oggetto alieno, finanche eretico, atterrato non si sa bene da dove nel bel mezzo della campagna veneta.

S.D.: Multipli, grafiche, pezzi unici. Tutto si tiene in Giobatta Meneguzzo e viceversa. Senza svelare troppo per chi leggerà il tuo libro, quale era il senso del suo collezionare?  

F.I.: Costruire un inventario del presente. Registrare l’arte nel suo farsi, nel momento stesso del suo divenire, dando conto dei fenomeni consolidatisi e di quelli in via di consolidamento. Mentre le opere uniche erano frutto dei primi importanti acquisti affidati al suo gusto e ai rapporti diretti con artisti e amici galleristi, il Museo è frutto dell’atteggiamento più consapevole e metodico del collezionista, il cui intento era quello di offrire una visione esaustiva dell’arte del periodo a lui coevo. La scelta dei multipli d’autore era in qualche modo obbligata, perché determinata dalle limitate risorse economiche a disposizione di Giobatta, geometra di professione. Eppure la sua raccolta testimonia che per mettere insieme una collezione di senso serve intelligenza, occorre una visione, non è sufficiente avere disponibilità di denaro. Pur con i suoi pochi mezzi, è riuscito a collezionare lavori di artisti internazionali di grande prestigio, anche se legate solo al disegno o all’opera seriale, concretizzandoli in un grande progetto culturale. 

S.D.: Il Museo Casabianca ospita l’enorme collezione di Giobatta Meneguzzo, si parla di 1200 opere, tra disegni, multipli e stampe d’arte create da più di 700 artisti e che coprono un arco di tempo che va dagli anni ’60 ai ’90.  Museo son mi, il museo sono io ripeteva in dialetto Giobatta. Anche se ora è temporaneamente chiuso, cosa rappresenta questo museo per gli appassionati di arte e i collezionisti?

F.I.: Una specie di Biblioteca di Babele, che attraverso le opere esposte permette di ripercorrere i movimenti più significativi e le tendenze più stimolanti delle arti visive contemporanee: dall’Informale alla Transavanguardia, passando attraverso la Pop Art, l’Arte Cinetica, il Nouveau Réalisme, l’Arte Concettuale e quella Povera, la Body Art e la Nuova Pittura, senza tralasciare gli Anacronisti e i Graffitisti americani. È una ricognizione metodica, nel senso di rigorosa e capillare, ma anche coeva dell’arte nel suo divenire. E proprio perché il Museo son mi, non c’è separazione tra le loro due identità. I segni si affollano, talvolta in una maniera che può apparire disorganica, ma che è giustificata dalla mancanza di volontà di istituire micro antologiche. Piuttosto, Giobatta intendeva suggerire rapporti, risonanze, suggestioni, presentando un esistente dinamico, che non cessava di evolvere e muoversi al ritmo incalzante del suo creatore. 

S.D.: Il titolo del tuo libro svela un approccio alla ricerca e al possesso delle opere d’arte che sembra lontano da certe cronache contemporanee dove il collezionismo sembra più simile ad una battuta di caccia con relativo trofeo da esporre, o ad una lotta all’ultimo rilancio per aggiudicarsi le opere che finiranno nei caveaux o nei porti franchi. Cosa c’era di divertente in quello che sembrava più simile al gioco infantile della caccia al tesoro?

F.I.: Direi il gioco della vita, come lo definisce Flavio Albanese, legato sin da giovane a Giobatta da sincera e profonda amicizia, in un’importantissima intervista confluita nel libro. Con generosità e lucidità disarmanti, Albanese traccia il profilo dell’uomo e del collezionista. Mi incantano ancora adesso le sue parole, quando ricorda di essersi sempre divertito con Battista (lo chiama così), di aver sempre riso insieme. C’era serietà nel suo modo di condursi, non era uno che si pendeva per “ischerzo”, come direbbe Boccaccio. Giobatta era una persona molto seria, che faceva il gioco della vita. 

S.D.: Il collezionismo è molto cambiato nel corso degli anni e ora sembra che il denaro sia la chiave di tutto. Molto intenso il racconto di Raphaelle Blanga che curò l’asta delle opere della casa di Giobatta, opere che portavano le firme di Fontana, Castellani, Bonalumi, Simeti e che raggiunsero dei record quando furono battute. Il rovescio della medaglia dei record è che sembra che il battito delle mani con cui sono accompagnati quando si raggiungono siano per l’ammontare dei soldi e non per le opere. Eppure, è l’unico modo che abbiamo oggi per registrare che Giobatta Meneguzzo ci avevo visto lungo o sbaglio in questa lettura?

F.I.: Sembra una contraddizione in termini, è vero. Grande risonanza ha avuto quell’asta del 17 ottobre 2014 a Londra, durante la settimana di Freeze. Ma si sa, il sistema dell’arte oggi pende tutto dalla parte del profitto, sicché sono tenuti più in considerazione i numeri che le persone e le loro storie. Eppure, nei solchi invisibili di quelle cifre notiziabili si cela la vicenda di un uomo che mai avrebbe potuto immaginare di speculare sulle sue opere. La parola vendere non faceva parte del suo vocabolario. Glielo hanno imposto le necessità economiche ma anche in quell’occasione, supportato dalla sensibilità di Blanga, è riuscito a trasformare un fatto per lui doloroso in fatto artistico, giocando al gioco del “tutto bianco”, con 4 opere monocromatiche che hanno rappresentato la sua uscita di scena trionfale e la testimonianza del fatto che ci avesse visto lungo.

S.D.: Il tuo libro non è solo un riuscito racconto, a più voci, di un collezionista singolare, ma è anche una riflessione sull’arte contemporanea e alcune sue pratiche anche più all’avanguardia. Molto intensa l’intervista a Cristina Casero e le lettere con Tiziana Cera Rosco: cosa rimane oggi di quella ricerca che oggi è comunque portata avanti da artiste e artisti spesso in maniera silenziosa?

F.I.: Un libro polifonico, al pari della vita di Giobatta. Che tiene dentro la sua voce, la mia e quella di tante persone tangenti al mondo dell’arte. Tiene dentro anche la mia ossessione per il corpo, “mistero di vita, custode di morte”, sul quale ragiono da anni e che scrivendo la sua storia si è inevitabilmente confrontato con il corpo di un assente. Ho frugato in ogni dove per sopperire alla sua mancanza fisica, dando un senso alla sua assenza con una lunga ricognizione, dal titolo “Poetiche del corpo”, che dà conto delle indagini avviate in campo artistico a partire dagli anni Sessanta. Cosa resta di quelle ricerche? La stessa attitudine a domandare. Perché è cambiato il contesto culturale e sociale, ma non l’assunto di base: che il corpo solo carne non esiste. Esso è in realtà sintesi incrociata, spesso sfuggente, di tutto: tutto ciò che abbiamo intorno, tutto ciò che accade socialmente, tutto ciò che accade nelle nostre vite personali.

S.D.: Una delle cose che più mi sono rimaste impresse nel tuo racconto è l’immagine di Giobatta Meneguzzo che con la sua macchina si dirige verso Milano per incontrare artisti, galleristi, altri amici e che poi torna nel suo paese. Il tuo libro si conclude con un verso di Montale “solo gli isolati comunicano”, ripreso anche dal poeta veneto Zanzotto , e sembra un verso di speranza. Ci si può aprire al mondo anche restando in provincia e la storia di Giobatta Meneguzzo ne è un esempio. È questa la magia dell’arte?

F.I.: È questa e tante altre. È anche la sua capacità di mitigare fragilità e solitudine, ricordandoci che questa nostra vita, bellissima e tristissima, che oscilla costantemente tra l’intensità della tragedia e l’agilità della commedia, quando s’intreccia con l’arte sa dare forma a ciò che di meraviglioso e impalpabile si annida tra le pieghe dell’esistenza.

Salvatore Ditaranto
Salvatore Ditaranto
Salvatore Ditaranto si occupa di marketing, contenuti e palinsesti televisivi in Rcs. È appassionato di arte, di editoria e di Milano.

Collezione da Tiffany è gratuito, senza contenuti a pagamento, senza nessuna pubblicità e sarà sempre così.

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