Non sparate sull’algoritmo dei social network, come dicono molti, perché potrebbe riservarvi sorprese come è successo a me con l’account della collezione MU.RO. È stato l’algoritmo di Instagram a suggerirmi il contatto dell’account di MU.RO. e poi, incuriosito dalla descrizione, ho subito mandato una richiesta di amicizia per conoscere chi ci fosse dietro un progetto che si presentava principalmente focalizzato sullagenerazione Z. Tra le altre cose mi avevano attirato alcune foto di un’opera dell’artista statunitense Marty Schnapf che venivano presentate come parte della collezione.
La curiosità mi ha portato a chiedere maggiori informazioni sul progetto MU.RO. e così ho scoperto due cose. La prima è che dietro questo acronimo, che rimanda alle pareti riservate ai dipinti, ci sono due cognomi di una coppia di creativi e appassionati di arte, e la seconda è che l’acronimo MU. RO. sarà il nome di uno spazio espositivo, non commerciale, in zona Martesana a Milano in cui ci saranno un ciclo di mostre dedicate ad artisti mediorientali. La coppia dietro MU.RO. è formata da Elisabetta Roncati, conosciuta per il suo profilo instagram ArtNomadeMilan, e dal suo compagno Andrea Musto che si è visto nei reel di Elisabetta, spesso nello stereotipo dell’accompagnatore disinteressato all’arte, e che poi ho scoperto essere in realtà da tempo un collezionistache alla sua professione affianca, oltre alla passione per l’arte, il suo interesse per la musica, la poesia e la scultura
Entrambi i fondatori della collezione MU.RO., prima di conoscersi, avevano cominciato a collezionare singolarmente ma è dal 2022 che il loro percorso di collezionisti si è intrecciato a quello sentimentale. In attesa dell’apertura del nuovo spazio oggi la collezione è sparsa tra Milano, il Veneto e la Liguria, ed ècomposta di un centinaio di opere, prevalentemente pittoriche, sia di artisti storicizzati come Valerio Adami, Enrico Baj, Gianfranco Baruchello, Lucio del Pezzo – che di emergenti.
Molti dipinti sono accomunati dalla rappresentazione della figura umana, come quella di Vittorio Valiante, del giovanissimo Francesco Cappelli e di Erica Conti. Altre opere sono entrate in collezione per l’aspetto legato alla matericità con cui sono fatte come il lavoro in cera d’api di Stefano Cescon o l’opera gonfiabile di Franco Mazzucchelli in cui ci si può quasi specchiare. Nella collezione ci sono anche un dipinto di Giovanni Novaresio, le cianotipie di Diego Randazzo, un documento di una performance di Ruben Montini, due foto di Bruna Ginammi e una tela di Aronne Pleuteri. Elisabetta e Andrea sono incuriositi dai nuovi linguaggi e dalle contaminazioni, hanno un’opera digitale di Matteo Mandelli, ma per ora la predilezione è per le opere pittoriche. Hanno ribadito che è “da questo amore per l’opera da parete che nasce il nome della nostra collezione: Mu.Ro. Un gioco di parole che allude al muro domestico su cui il quadro si poggia, ma anche all’unione delle iniziali dei nostri cognomi, come se l’atto del collezionare fosse esso stesso una forma di affinità elettiva”.
A proposito di affinità Elisabetta Roncati ha dedicato una parte della sua professionalità, che la porta a condividere con successo contenuti legati al mondo dell’arte, e del suo impegno alla comunità LGBTQIA+. Qualche anno fa ha pubblicato per Rizzoli il suo libro “Arte Queer” con la volontà di portare all’attenzione di più persone possibile opere e nomi di artisti della comunità queer e così continuare a difendere battaglie e valori “sull’inclusività, la rappresentazione identitaria e le soggettività non egemoni”. Per questo suo impegno ha avuto anche problemi con degli haters che però non l’hanno smossa dal suo intento, condiviso anche con Andrea. Ogni lavoro artistico che entra nella loro collezione è “un frammento di un discorso più ampio sul mondo e su chi lo abita. E il nostro compito, come collezionisti, è ascoltare, scegliere e custodire quelle voci che sappiano parlarci assommando una pluralità di voci”. Il discorso della pluralità e del dialogo tra culture tornerà nei cicli espositivi che ospiteranno tra le pareti di MU.RO. non appena sarà inaugurato. Nel frattempo tocca a noi ascoltare le loro voci e cercare quel dialogo e quell’affinità a cui fanno spesso riferimento nelle loro risposte.

SD: Umberto Eco ha scritto “la principale funzione della biblioteca, almeno la funzione della biblioteca di casa mia e di qualsiasi amico che possiamo andare a visitare, è di scoprire dei libri di cui non si sospettava l’esistenza, e che tuttavia si scoprono essere di estrema importanza per noi”. Non è così anche per una collezione d’arte e cioè sorprendere? Cosa potrebbe sorprendere in particolare della vostra collezione?
MU.RO.: Sì, siamo pienamente d’accordo con Eco: una collezione è, prima di tutto, un dispositivo di meraviglia. Quello che nella nostra ci sorprende è la capacità delle opere di attivarsi diversamente a seconda del momento in cui le guardiamo. Non esiste un solo significato, un’unica lettura: ogni pezzo evolve, ci interpella in modo nuovo, cambia con noi. Forse è proprio questo che può sorprendere chi la osserva dall’esterno: il fatto che, pur essendo in crescita e in movimento, la raccolta ha già una voce propria, coerente ma non rigida, aperta al dialogo ma non troppo influenzabile dalle mode passeggere. È uno specchio che non riflette mai la stessa immagine due volte e in questa tensione tra riconoscibilità e mistero, tra presenza e metamorfosi, risiede la sua natura più autentica.
SD: “La poesia è poesia quando porta in sé un segreto” disse Ungaretti in un’intervista. Potremmo dire che è così per l’arte in generale e per quella contemporanea in particolare. Quale segreto contengono le opere che collezionate?
MU.RO.: Il segreto che le nostre opere custodiscono non è mai uno solo e spesso nemmeno lo stesso per entrambi. È proprio questo a renderle speciali: l’abilità di aprire spazi di lettura multipli, sorprendenti, intimi. Nonostante la differenza generazionale che ci caratterizza siamo allineati nel riconoscere quel battito segreto che rende un’opera necessaria. Il nostro è stato un incontro estetico e di sensibilità prima ancora che sentimentale: ci ha uniti il modo in cui guardiamo il mondo attraverso l’arte. Le opere che scegliamo parlano di emozioni non gridate, di corpi che cercano spazio, di silenzi che raccontano più delle parole. Il segreto, forse, è proprio questo: ogni artista, attraverso il suo lavoro, ci affida una verità nascosta. E noi ci sentiamo responsabili di custodirla.
SD: “Gli oggetti sono sempre stati trasportati, venduti, scambiati, rubati, recuperati e perduti. Le persone hanno sempre fatto regali. Quello che conta è come racconti la loro storia” si legge nel romanzo “Un eredità di avorio e ambra”. C’è una storia che vorreste raccontare legata ad un’opera d’arte?
MU.RO.: Non c’è una singola opera che racchiuda “la” storia da raccontare. Piuttosto c’è un aspetto della collezione che custodisce una narrazione meno visibile che ci emoziona sempre condividere. Una porzione della raccolta è costituita da opere di artisti storicizzati, protagonisti delle avanguardie, del Futurismo, dell’Arte Povera, che siamo riusciti ad acquisire, in particolare grazie alla sensibilità e alla dedizione di Elisabetta, attraverso la partecipazione ad aste. In questi gesti c’è una forma di ascolto profondo della storia dell’arte italiana, un desiderio di raccogliere e custodire tracce di linguaggi che hanno lasciato il segno. Non si tratta di nostalgia, ma di un dialogo vivo tra passato e presente. È come se queste opere fossero radici invisibili che nutrono e sorreggono il nostro sguardo sul contemporaneo. Ogni volta che ne contempliamo una sentiamo di aver portato a casa non solo un oggetto, ma un frammento vibrante del percorso che ha reso l’arte quello che è oggi.
SD: “Ogni immagine più che del soggetto ci parla dello sguardo dell’autore” scrivono Gayford e Hockney. Una collezione ci parla molto anche del collezionista: la vostra cosa dice?
MU.RO.: La nostra collezione parla di noi come di due individui in ascolto: curiosi, attenti, disposti a lasciarsi cambiare da ciò che incontrano. Riflette una sensibilità condivisa ma mai omologata, una danza a due tra affinità e sfumature personali. Racconta di un desiderio di capire il presente attraverso lo sguardo degli artisti, di accogliere la complessità senza ridurla, di dare spazio a visioni distanti, ma autentiche. Forse narra anche il nostro bisogno di bellezza, ma non patinata o decorativa: quella che inquieta, che accende domande, che fa crescere. È una collezione che ci assomiglia perché evolve con noi, raccoglie i nostri dialoghi, le riflessioni condivise, i dubbi, le epifanie. Non cerca conferme, cerca incontri. E, come ogni incontro vero, lascia tracce.
SD: Riprendo Thomas Bernhard che in ‘Antichi Maestri’ scrive “Per quanto ciò sia assurdo, quando leggo un libro ho comunque la sensazione e la convinzione che il libro sia stato scritto solamente per me, se guardo un quadro ho la sensazione e la convinzione che sia stato dipinto solamente per me…”. Come collezionisti d’arte avete mai provato la stessa cosa davanti ad un’opera? Avete commissionato per voi?
MU.RO.: Sì, ci è capitato spesso di vivere quell’intimità profonda e inspiegabile davanti a un’opera, come se fosse stata creata apposta per noi. È un’esperienza che non dipende dalla firma dell’artista o dalla sua fama, ma da quel senso di riconoscimento istantaneo: come se qualcosa di nostro fosse stato fissato sulla tela. Abbiamo gusti simili e questo ci permette di confrontarci costantemente su ciò che incontriamo: analizziamo, discutiamo, ci interroghiamo con uno sguardo che cerca sempre il cuore dell’opera più che il suo valore critico. Al momento non abbiamo ancora commissionato lavori, ma abbiamo alcuni progetti in cantiere. L’idea di accompagnare un artista in un percorso condiviso, lasciando spazio a un’opera che nasca anche da un dialogo con noi, ci affascina profondamente. Sarebbe come scrivere un capitolo a quattro mani all’interno della nostra collezione.

SD: Alan Bennett nel suo scritto ‘I quadri che mi piacciono’ confessa: “Il mio criterio di giudizio è piuttosto superficiale, e mi riesce difficile separarlo dall’idea di possesso. Così so che è un quadro mi piace solo quando ho la tentazione di portarmelo via nascosto sotto l’impermeabile”. Concordate?
MU.RO.: Siamo in disaccordo, ma comprendiamo la tentazione poetica di Bennett. Certo, ci sono opere che ci catturano al punto da immaginare, per un istante, di volerle custodire per sempre. Proviamo però un profondo rispetto per l’arte e per il percorso di ogni lavoro: non tutto è destinato a entrare in una collezione privata e va bene così. Ci piace pensare che ci siano capolavori che continuiamo a desiderare da lontano, che torniamo a rivedere come si fa con un caro amico che vive altrove. E forse è proprio questo desiderio irrisolto che alimenta il nostro sguardo. Acquisire un’opera è un atto importante, ma non è mai un furto romantico: è un dialogo, una responsabilità, un gesto che richiede consapevolezza. Per tutto il resto esistono le mostre, i musei, i luoghi in cui l’arte continua a sorprenderci anche se non la possediamo e soprattutto è a disposizione dell’umanità nel suo complesso favorendo un processo di crescita sociale.
SD: Pierre Le-Tan, parlando dei collezionisti che aveva incontrato, come a voler dare un consiglio, scrive “un collezionista avveduto compra sempre pezzi estranei alle mode”. Vi sentite di condividere questo consiglio?
MU.RO.: Condividiamo il consiglio di Le-Tan se lo si interpreta come un invito a mantenere uno sguardo vigile e indipendente. Il mercato può offrire indicazioni interessanti, ma non deve essere l’unica bussola a guidare il cammino. Collezionare, per noi, significa anche assumersi il rischio di una scelta personalespesso controcorrente. Sì, ci capita di seguire artisti emergenti che magari in quel momento godono di visibilità, ma il nostro criterio ultimo resta la qualità del lavoro, la coerenza della ricerca, l’intensità del linguaggio. Siamo attratti dai creativi che sanno parlare in modo profondo del loro tempo, anche se ancora non sono entrati nella cerchia dei “nomi che contano”. In fondo, una collezione è come una narrazione e noi vogliamo che la nostra racconti storie autentiche non dettate dall’effimero.
SD: Maurizio Cattelan in un’intervista ha paragonato le sue opere a degli orfani in cerca di una nuova famiglia. Vi piace pensarvi nei panni di un genitore adottivo per un’opera d’arte e forse anche per un artista?
MU.RO.: Perché no? L’immagine ci strappa un sorriso, ma contiene una verità che riconosciamo. In fondo ogni opera che entra nella nostra collezione è come un incontro che genera una responsabilità. Ci piace pensarci come custodi attenti, a volte anche come piccoli mecenati contemporanei: non nel senso tradizionale del termine, ma come coloro che credono nel lavoro di un artista e decidono di accompagnarlo e di sostenerlo. Non “adottiamo” solo un oggetto, ma un frammento di percorso, un pensiero, un’urgenza espressiva. E, a volte, nel tempo, si crea un legame che va oltre l’opera: un dialogo che prosegue anche fuori dallo spazio della tela. È questo che rende il collezionare un gesto vivo, mai concluso.
SD: Raramente c’è un unico motivo che spinge le persone a interessarsi all’acquisto d’arte: me ne potreste dire uno che sentite particolarmente vostro?
MU.RO.: Per noi collezionare è, prima di tutto, un atto di responsabilità. L’arte è patrimonio dell’umanità intera e ciascuna opera che decidiamo di accogliere diventa parte di un racconto collettivo. Ci sentiamo custodi temporanei di qualcosa che ci attraversa, che ci emoziona, ma che ci supera. Forse è questo il motivo che più ci rappresenta: l’idea di costruire, nel tempo, una traccia, un’eredità culturale che un domani qualcuno raccoglierà, arricchirà, porterà avanti. Non collezioniamo per possedere, ma per preservare, per far vivere. L’opera d’arte, per noi, è come una fiamma da tenere accesa e da passare, un giorno, in mani altrettanto attente.
SD: Quando scegliete un’opera seguite più l’orecchio (i “cosa si dice” sull’artista etc.) o il cuore e cosa vi dice?
MU.RO.: Il primo incontro con un’opera è sempre visivo, di “pancia”, quasi epidermico. C’è qualcosa che accade in un istante, una vibrazione, un’attrazione che non ha ancora bisogno di spiegazioni. Poi arrivano le riflessioni, le ricerche, gli approfondimenti e se l’artista è già oggetto di discussione o se ne intuisce il potenziale, tanto meglio. Ma non è mai la reputazione a guidare la scelta. È il cuore, alla fine, a decidere. O forse dovremmo dire: il cuore allenato da uno sguardo che ha imparato a riconoscere l’urgenza, la qualità, la verità di un gesto. Collezionare non è mai un esercizio di consenso, ma un atto di fedeltà a ciò che ci parla davvero.

SD: Gertrude Stein diceva agli amici che per fare una collezione è sufficiente risparmiare sul proprio guardaroba. A cosa rinuncereste o avete rinunciato per un’opera d’arte?
MU.RO.: All’inizio del nostro percorso collezionistico ogni acquisizione era accompagnata da una piccola rinuncia. Abbiamo sacrificato viaggi, esperienze, talvolta desideri immediati per poter investire in un’opera che sentivamo imprescindibile. Ma più che rinunce le abbiamo sempre vissute come scelte: una forma di priorità che ci è venuta naturale. Perché l’emozione che ci regala un lavoro capace di trasformare uno spazio, di dialogare silenziosamente con il quotidiano non è comparabile a nessun altro tipo di gratificazione. Collezionare arte è un atto d’amore che si nutre di dedizione e, come ogni amore vero, chiede qualcosa in cambio. Ma quello che restituisce, in termini di senso, bellezza, crescita interiore, è infinitamente più importante.
SD: Potremmo paragonare un collezionista ad un giardiniere che cura il suo giardino, ad un editore che sceglie i libri da pubblicare nel suo catalogo, un padre o ad una madre che adottano, un custode che mette al riparo: a cosa vi paragonereste come collezionisti?
MU.RO.: Ci piace immaginarci come “custodi” non nel senso statico del termine, ma come guardiani attivi, attenti, quasi sentinelle dell’arte che scelgono, accolgono e proteggono. Come chi apre una porta e resta lì, vigile, affinché la bellezza continui a circolare senza perdere la sua forza. Ogni opera che entra nella nostra collezione è come un seme che germoglia nel tempo: chiede cura, spazio e, a volte, silenzio. In fondocollezionare è un gesto di responsabilità verso il presente: un modo per dire che siamo passati di qui e che abbiamo creduto nell’arte come strumento per comprendere il mondo.
SD: Mark Rothko ha scritto “Un quadro vive in compagnia, dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile. Muore per la stessa ragione. È quindi un gesto arrischiato e spietato mandarlo in giro per il mondo”. Le opere d’arte fanno compagnia?
MU.RO.: Più che farci compagnia le opere d’arte ci offrono un “rifugio”. Sono varchi aperti in mezzo al rumore, sospensioni del tempo in cui è possibile rallentare e respirare. Alcune tele ci accolgono come fa il nostro libro preferito, altre ci sfidano, ci provocano, ci obbligano a rivedere ciò che pensavamo di sapere. Ma tutte, in un modo o nell’altro, ci portano altrove. C’è una qualità meditativa nel convivere con un’opera: è come avere in casa una finestra che dà su una geografia dell’anima. Non chiediamo all’arte di consolarci, ma di esserci. E questa presenza silenziosa e vibrante è spesso la forma più alta di compagnia che si possa desiderare
SD: Ci consigliate un posto, anche e soprattutto fuori dai soliti giri, che un appassionato di contemporaneo non può non conoscere e frequentare?
MU.RO.: Sembra quasi scontato dirlo, ma rispondiamo con convinzione: Collezione Mu.Ro. Non perché sia la nostra, ma perché nasce da un desiderio genuino di condividere, di costruire un dialogo aperto e accessibile sull’arte contemporanea. È un progetto in divenire che ben presto troverà un luogo fisico a Milano. Invitiamo quindi chiunque ami la cultura a seguirci, a scriverci, a conoscerci e, a breve, anche a passarci a trovare in un quartiere milanese che amiamo particolarmente e dove apriremo il nostro spazio. Crediamo, infatti, che le collezioni non debbano restare chiuse dietro porte invisibili, ma respirare insieme al loro tempo, contaminarsi e ispirare.

SD: Elio Fiorucci in un’intervista al Corriere disse che per dormire bene lui pensava ad una donna nuda. A cosa pensa una collezionista prima di dormire?
MU.RO.: Non sappiamo a cosa pensino gli altri collezionisti prima di dormire, ma per noi il pensiero ricorrente è quasi sempre lo stesso: una mostra che si avvicina, un’opera ancora da scoprire, una ricerca che ci ha lasciati in sospeso. Contiamo i giorni come si contano le “pecorelle”, ma le nostre sono fatte di tela, pigmenti, visioni. Chi colleziona, lo crediamo davvero, è attraversato da una forma speciale di insonnia: quella che nasce dall’urgenza di vedere, di comprendere, di entrare in contatto con qualcosa che non è ancora stato detto, ma che aspetta solo di essere riconosciuto. È un’attesa febbrile, ma dolcissima.
SD: Molti collezionisti prima di cominciare ad acquisire si sono messi a studiare. Avete un libro in particolare che consigliereste a chi vuole avvicinarsi all’arte contemporanea?
MU.RO.: Il nostro consiglio è di cominciare dai luoghi prima che dalle pagine. L’esperienza diretta dell’opera forma davvero lo sguardo: bisogna partecipare a fiere, mostre, talk, entrare negli studi degli artisti, ascoltare le voci vive del sistema. Ovviamente il percorso di conoscenza deve poi essere arricchito anche attraverso la lettura di testi fondamentali, capaci di orientare e stimolare riflessioni. Tra i libri che consideriamo imprescindibili per chi desidera addentrarsi nel mondo dell’arte contemporanea segnaliamo i due titoli di Donald Thompson, che con taglio divulgativo e ironico svela le logiche più affascinanti (e talvolta assurde) del mercato: “Lo squalo da 12 milioni di dollari” e “Bolle, baraonde e avidità”. Sono letture che aprono gli occhi su cosa davvero si muove dietro i riflettori delle aste e delle fiere. Un’altra voce autorevole è quella di Georgina Adam, che in “Dark Side of the Boom” indaga le ombre del sistema, raccontando trame, eccessi e retroscena spesso ignorati dal grande pubblico. Leggere, vedere, ascoltare, confrontarsi: solo così si forma uno sguardo critico e personale, la vera risorsa di ogni collezionista.
SD: Prendo in prestito il titolo del libro del collezionista e scrittore Giorgio Soavi “Il quadro che mi manca” e vi chiedo: qual è l’opera che vi manca: quella che è andata via per sempre o che ancora deve arrivare?
MU.RO.: Ci piace pensare che l’opera che manca sia sempre quella che ancora deve arrivare. Non viviamo il collezionismo come un inseguimento nostalgico a ciò che non è stato, ma come un’apertura costante al possibile. Certo, ci sono state occasioni perdute, opere sfiorate e poi sfuggite, ma non rimaniamo a rimuginare: preferiamo concentrarci sul movimento in avanti, sulla scoperta inattesa, su quel pezzo che un giorno incrocerà il nostro sguardo e sapremo riconoscere come “necessario”. Collezionare, per noi, è anche questo: un’attesa attiva, un desiderio vigilante, una danza con ciò che ancora non c’è, ma potrebbe essere.
SD: “Rimaniamo, inguaribilmente, creature verbali che amano spiegarsi le cose, formarsi delle opinioni, dibattere. Provate a metterci davanti a un quadro e tutti noi, ciascuno a modo proprio, cominceremo a parlare. Girovagando per le sale, Proust amava raccontare delle persone della vita reale che i personaggi del quadro gli rammentavano; chissà forse un abile strategia per evitare un confronto estetico diretto. Ma rari sono i dipinti che, in virtù della loro bellezza o per capacità di persuasione, ci riducono al silenzio. E quand’anche rimanessimo senza parole, non tarderemmo a voler spiegare e comprendere lo stesso silenzio nel quale siamo piombati” ha scritto Julian Barnes. Spesso si legge che l’arte contemporanea ha bisogno di essere spiegata per essere capita ma, a leggere Barnes, questo potrebbe essere vero per tutta l’arte. Quali parole potrebbero accompagnare la vostra collezione o un’opera in particolare? Possedete opere che zittiscono?
MU.RO.: Abbiamo sempre creduto che le opere più potenti non abbiano bisogno di essere spiegate. Sono lavori che ti parlano in una lingua profonda. Nella nostra collezione ci sono quadri che arrivano dritti, senza chiedere permesso, che impongono silenzio, riflessione, ascolto. Alcuni ci hanno zittito al primo sguardo, altri continuano a farlo ogni volta che li osserviamo come se avessero una voce che suona su frequenze diverse da quelle del linguaggio. Se dovessimo accompagnare la raccolta con delle parole sarebbero “ascolto” e “rivelazione”. Perché ogni opera, se accolta davvero, ha qualcosa da insegnare. E noi collezioniamo anche per questo: per imparare a stare in silenzio davanti a ciò che ci emoziona.

SD: Alcuni collezionisti utilizzano i social network per condividere le opere d’arte che collezionano o quelle degli artisti che seguono e che magari vorrebbero possedere. Credo che condividere opere e creazioni di artisti sui social sia anche un modo per contaminare il flusso dello scrolling, un modo concreto per far entrare l’arte contemporanea nel quotidiano di altre persone. Concordate?
MU.RO.: Assolutamente sì. Crediamo che i social, se usati con consapevolezza, possano essere uno strumento straordinario per avvicinare l’arte al quotidiano, per rompere la barriera dell’élite e trasformare il gesto del collezionare in un atto di condivisione culturale. Pubblicare un’opera non significa esibirla, ma offrirla allo sguardo dell’altro, contaminarlo, farlo riflettere anche solo per un istante nel fluire distratto dello scrolling. Ci piace l’idea che un quadro che amiamo, un artista che sosteniamo o un dettaglio di una mostra possa attraversare lo schermo e accendere qualcosa in chi guarda. I social sono oggi il primo luogo di incontro con l’arte per tantissime persone. Se possiamo contribuire, anche in minima parte, a rendere quel primo incontro più interessante, allora vale la pena esserci con autenticità e cura.
SD: Nel vostro profilo instagram c’è scritto che il vostro focus è sugli artisti della GEN Z: dal vostro osservatorio privilegiato cosa vedete?
MU.RO.: Quello che vediamo è una generazione visivamente potentissima, nata in simbiosi con l’immagine e con una consapevolezza linguistica sorprendente. Gli artisti della Gen Z non chiedono il permesso: si esprimono, si espongono, si confrontano con temi urgenti come l’identità, l’ambiente, la fragilità, l’alterità, ma lo fanno con strumenti nuovi, ibridi, spesso sfuggenti ai codici tradizionali. Ci affascina il modo in cui riescono a restare viscerali e digitali al tempo stesso, profondi senza mai risultare didascalici. È una generazione che cresce connessa, che spesso bypassa i canali istituzionali per creare comunità fluide, internazionali, transdisciplinari. E da collezionisti il nostro sguardo è rivolto proprio lì: dove il linguaggio sta cambiando, dove qualcosa ancora informe inizia a prendere corpo, dove l’arte non è ancora sistema e proprio per questo è più viva che mai.