E’ Annamaria Gelmi, con l’installazione Oltre il Sacro, l’artista scelta come protagonista dell’edizione 2016 della rassegna Kunstraum Kirche che, da 25 anni, seleziona artisti internazionali per promuovere il dialogo tra tradizione e modernità negli spazi sacri, attraverso l’installazione di opere d’arte contemporanea nelle chiese. L’opera della Gelmi, che sarà visibile all’interno del Duomo di San Giacomo ad Innsbruck per tutta la Quaresima, è costituita da due croci: una posizionata davanti all’altare, in materiale specchiante, e una parallela alla prima, sospesa, il cui perimetro è illuminato da led rossi. Un’opera che riflette tutta la complessità del simbolo della croce che, trascendendo dal suo significato cristiano e religioso, si avvicina alle memorie geometriche delle prime forme architettoniche come ci spiega la stessa artista in questa breve intervista.
Nicola Maggi: Con Oltre il sacro interpreta il simbolo della croce come segno primordiale di ordine cosmico. Ci racconta qualcosa sulla genesi di questo lavoro?
Annamaria Gelmi: «Penso ai primordi dell’espressione plastica umana: individuo lo spazio e – tramite l’incrociarsi di linee verticali e orizzontali, così come di assi parallele, dunque di assiomi visivi – arrivo a un processo di scarnificazione da quelli che considero “fronzoli” illusionistici. Così facendo, rinuncio a ogni spessore denotativo fino a spingere lo spettatore al quesito primo della visione: che cosa sia la forma. Da questo derivano i miei Perimetri degli anni 90.Ogni mia installazione nasce dalla visione del luogo in cui sarà inserita. Per il Duomo di Innsbruck, un luogo sacro per eccellenza, con un barocco ridondante, ho pensato a una installazione minimale: una grande croce specchiante collocata a terra, tra l’altare e i fedeli, e una croce rossa in led posta in alto. Quest’ultima, simbolicamente, indicherà a chi entra l’imminenza di un cambiamento non solo visivo (parte della chiesa si specchierà, raddoppiandosi), ma anche spirituale».
N.M.: Un lavoro che è un po’ una sintesi delle sue ricerche e sperimentazioni dagli anni Settanta ad oggi…
A.G.: «Certo, da sempre il mio interesse per il linguaggio dell’arte è, per me, oggetto di un’ analisi radicale tanto che, spesso, prendo in prestito anche i mezzi propri del disegno tecnico e della matematica, permettendomi di spostare l’attenzione dal “che cosa” al “come”. Il senso di questa operazione è quello di arrivare a una indagine “metamatematica”, ma sempre in dialogo con l’ambiente, nell’uso dello spazio circostante e nel rapporto con la memoria culturale. Ogni mio progetto, schizzo, disegno è inevitabilmente messo a confronto con i temi cruciali riguardanti l’umanità. Sia in pittura che nelle installazioni, Perimetri e Labirinti sono la memoria primordiali forme architettoniche così come sono arrivate a noi. Trovo che un filo conduttore possa unire la pratica artistica dall’antico al contemporaneo, così come l’opera contemporanea può interagire con materiali e luoghi antichi».
N.M.: C’è una frase del pittore Markus Lüpertz che sembra adattarsi perfettamente a “Oltre il sacro”: Non si può dipingere una croce e sostenere che si tratti solo di una forma…
A.G.: «È vero, ma i significati possono essere molteplici e, come scrive Pierangelo Schiera, “la croce/crocevia è il segno più vistoso dell’uomo anche nella sua dimensione collettiva, cioè sociale. Infatti è il modo più semplice e lineare per trovare un centro e fissarlo. Intorno al centro si costruisce la comunità, la città”. La nostra cultura ci porta a vedere nella forma di croce, per prima cosa, il simbolo del cristianesimo. Io vedo e penso a più significati, a forme primarie dell’architettura: uno spazio archeologico di memoria sacra, presentato sotto il triplice profilo del progetto, dell’ambiente e del rapporto fra interno ed esterno . In sintesi: perimetro, confine, ma anche recinto. Uno spazio che non è mai oggettivo, bensì costantemente relativo e soggettivo: nella mia produzione artistica i quadri, le sculture e le installazioni hanno forme plastiche prive di accenti prospettici o di volumi, ma creano uno spazio relazionale tra opera e osservatore attraverso stratificazioni o rotazioni di forme/oggetti bidimensionali. S’impone così il concetto del senso originale della non-oggettività, del lavoro sull’inconcretezza. E’ un’operazione che origina dalla memoria consapevole e, per questo, l’abituale punto di vista deve essere infranto».
N.M.: Una convergenza di forma e spiritualità che è quasi una costante nel suo lavoro e sottolineata da quel termine “oltre” che torna spesso nelle sue opere. Penso ad esempio all’installazione Oltre il tempo al Mart di Rovereto…
A.G.: «Collocare un’opera in un luogo significa rompere il punto di vista dell’osservatore, catturandone l’attenzione mediante lo spostamento (straniamento) prospettico dato dall’elemento sintetico-allusivo che si sovrappone. In questo modo, l’osservatore otterrà una diversa percezione dello spazio che, pur non includendo mai la rappresentazione dell’uomo, suggerisce la spiritualità dell’umano grazie ai significati profondi evocati dall’opera che lì è stata collocata. Oltre il Tempo porta alla memoria gli antichi miti di passaggio, legati ai vari stati della vita: nascita, adolescenza, maturità, morte; ma anche presente e futuro, trasformazione di un luogo in altro luogo, viaggio da una realtà di maestosa solitudine ad altri luoghi affollati del passato o del futuro».