Quello dei record delle aste internazionali è un tema che Collezione da Tiffany ha affrontato più volte. Oggi, però, vorremmo aggiungere un altro tassello alle nostre analisi, per farvi conocere sempre meglio le dinamiche che regolano il mercato secondario dell’arte contemporanea, sempre molto in voga, con le sue super aggiudicazioni, nelle pagine economiche dei media di settore.
Se marketing, gallerie di brand, speculazione e grandi collezionisti sono certamente gli elementi chiave che stanno alla base di molti dei record che fanno registrare le principali aste del globo terracqueo, un ruolo importante è giocato dai galleristi in prima persona. Ancora? Vi chiederete. Sì, ma questa volta non vi parleremo del ruolo che i Gagosian di turno hanno nell’affermazione di un artista più o meno emergente. Ma di un fenomeno, sempre esistito, che è quello dei record stabiliti proprio dai galleristi.
No, non sto farneticando. Oltre ai collezionisti e agli investitori/speculatori, nelle sale di vendita delle case d’asta internazionali i galleristi sono sempre presenti. E vi assicuro che non hanno un ruolo facile. Sono lì, infatti, per tutelare il mercato e le quotazioni dei propri artisti. Un’opera invenduta o battuta ad un prezzo inferiore alle aspettative, d’altronde, potrebbe gettare un’ombra pesante sulla carriera del loro beniamino. Ecco, allora, che capita che alcuni dei record sbandierati nei comunicati stampa e sulle testate d’arte nascano proprio dal Gallerista che, per un momento, si spoglia delle sue vesti di venditore per indossare la giacca – talvolta molto scomoda – di acquirente.
La storia più recente è del maggio scorso ed è stata resa nota dalla testata online statunitense Gallerist. L’opera in questione è il dipinto Park Avenue Façade dell’espressionista astratto Michael Goldberg. Stimato, nel catalogo di Christie’s New York, tra i 100 e i 150 mila dollari, il dipinto è stato aggiundicato per ben 461 mila bigliettoni. Un record per l’artista. Ma chi era il facoltoso acquirente che si è aggiudicato il quadro? Michael Rosenfeld, il gallerista di Manhattan che rappresenta Goldberg e che ha ammesso di acquistare regolarmente, quando necessario, i lavori dei propri artisti – in vita o meno – che passano in asta. Le ragioni di questo costume sono svariate, ovviamente, e se la prima, come detto, è proteggere il mercato dei propri artisti, una motivazione non meno importante è quella di dimostrare ai propri clienti che il gallerista crede molto nel lavoro dell’artista che ha deciso di seguire. Talmente tanto da ricomprarsi un’opera se questa rischia di rimanere invenduta o è presentata in catalogo con una stima inferiore ai livelli standard.
Normalmente, in realtà, i galleristi si limitano a fare delle puntate per tener su le quotazioni, ma non è raro che arrivino a comprarle. Lo conferma anche un altro gallerista newyorkese intervistato dalla rivista: Renato Danese, che ha chiarito come siano gli stessi artisti ad aspettarsi che un gallerista protegga il loro mercato e la loro reputazione. La pratica, ovviamente, è del tutto legale ed è uno dei meccanismi che regolano il mercato secondario. Ma non tutti gli artisti gradiscono queste manipolazioni, per quanto consentite dalla legge. E’ il caso di Vito Acconci o del pittore Bill Jensen. Mentre Kiki Smith lo pretende in modo esplicito.
Resta il fatto che il controllo del mercato degli artisti rappresentati è una delle attività che i galleristi sono chiamati a svolgere. Non di rado, infatti, nei contratti di vendita di un’opera (quando ci sono) viene inserita la clausola che obbliga il collezionista a rivendere il pezzo solo attraverso la galleria dove è avvenuto in origine l’acquisto. Una regola che, nel tempo, è entrata a far parte della stessa etichetta del collezionista e a cui si sono adeguate anche le case d’asta che, quasi sempre, comunicano alle gallerie se un’opera di un loro artista è inserita nel catalogo di una vendita all’incanto. Non solo. Essendo in grado di sapere quale livello d’interesse può riscuotere tra i collezionisti invitati all’asta un determinato lavoro, lo comunicano ai galleristi invitandoli, nel caso questo non sia altissimo, ad essere presenti in sala per fare delle offerte.
Legale o meno che sia, questa pratica ci fa capire come il mercato dell’arte sia diverso da quello di altri beni. Normalmente dovrebbe essere la domanda a far crescere o diminuire il prezzo di un oggetto. In questo caso, invece, sembra che tutto sia in mano alla sola offerta. Un motivo in più per insistere sul fatto che è il momento di finirla con l’equazione valore economico=valore culturale di un’opera. E, invece, i risultati di mercato sembrano regolare sempre di più le agende dei collezionisti modaioli e, cosa più grave, delle istituzioni internazionali (pubbliche e private) che si occupano di contemporaneo.
Un’opera d’arte, per entrare in un museo, dovrebbe essere buona a prescindere dal suo prezzo di mercato e il pubblico che visita le sale di un’istituzione museale dovrebbe essere tenuto al riparo da certi meccanismi che riguardano solo il lato economico del Sistema dell’Arte che non è da demonizzare, ma che segue, per sua natura, dinamiche diverse da quelle della valorizzazione storico culturale dell’arte.