La sfrenata gentrificazione a Berlino va di pari passo con la resistenza alla gentrificazione, ed è con questa lente che riportiamo gli highlights della Berlin Art Week, che quest’anno rispecchia l’anima di una città oggi più militante che mai.
La settimana dell’arte berlinese si è svolta dal 13 al 18 settembre proponendo al pubblico internazionale una tale varietà di format espositivi alternativi che non hanno fatto sentire la mancanza di una vera e propria fiera.
Berlino, si sa, come tutte le città tedesche, è ricca di istituzioni e musei che, sia per la qualità delle collezioni che per le ricche programmazioni, sono indubbiamente tra i più prestigiosi d’Europa. Per quanto riguarda le fiere d’arte però, la situazione è ben diversa. Qui le manifestazioni commerciali hanno sempre avuto vita difficile, principalmente per tre motivi.
Il primo è sicuramente la competizione con Art Cologne, una delle fiere più antiche d’Europa e tuttora tra le più solide – seguita da Art Düsseldorf, fiera minore ma altrettanto forte.
Il secondo motivo è la storica e ben nota assenza di collezionisti e in generale la quasi totale mancanza di un mercato dell’arte: Berlino è la città ideale per la ricerca, la produzione e la sperimentazione artistica, ma tutti ormai sanno che qui vendere é un’illusione – i collezionisti sono a Colonia e a Monaco.
La terza ragione, forse la più importante, è l’eterna lotta per la conquista di spazi dove realizzare manifestazioni non effimere, ma lungo termine. Lotta con chi? Naturalmente con i grandi investitori che stanno a poco a poco conquistando la città trasformandone radicalmente il volto e l’identità.
Banche, uffici e appartamenti di lusso sorgono come piante infestanti lì dove fino a qualche anno o mese fa c’erano centri culturali, gay club, collettivi, discoteche, negozi dell’usato e circoli culturali: gli investitori non lasciano spazio a contratti d’affitto a lungo termine per eventi culturali.
Ma Berlino non si perde d’animo e, anche se non è mai riuscita a creare una fiera che si consolidasse nel tempo, o proprio per questo motivo, è stata capace di inventarsi continuamente nuovi format per manifestazioni artistiche commerciali e non, dimostrando come spesso è proprio dalla crisi che nascono le idee più originali.
Un tempo, dal 2008 al 2018, c’era ABC art contemporary, una fiera creata da un’associazione di galleristi berlinesi, poi diventata Art Berlin grazie alla fusione con Art Cologne. La fiera di Berlino, sotto diversi nomi, è stata una fiera errante, che ha trovato asilo in vari luoghi della città tra cui Tempelhof, l’ex aeroporto di Berlino Est, o gli spazi della stazione della metropolitana a Gleisdreieck. Ora Art Berlin non esiste più, nuovi format hanno preso piede.
Anche quest’anno, ad esempio, è stata organizzata la grande mostra K-60 al Wilhelm Hallen (edificio industriale in disuso), nata durante la pandemia su iniziativa di un gruppo di gallerie berlinesi come risposta all’emergenza di creare una manifestazione espositiva e commerciale in città.
Questo format si pone a metà tra una Biennale e una fiera, in quanto le gallerie coinvolte hanno ciascuna uno spazio proprio, ma non delimitato, e presentano opere di grandi dimensioni, installazioni e performance. Una formula vincente, in cui i galleristi uniscono le forze e presentano ai clienti opere che difficilmente troverebbero altre occasioni espositive.
Le gallerie coinvolte quest’anno sono numerose: alexander levy, carlier/gebauer, Chert Lüdde, Efremidis gallery, Esther Shipper, Helga-Maria Klosterfelde, HUA International, Klemm’s, Mehdi Chouakri, neuegerriemschneider, Nome, PSM, Soy Capitan, Spruth Mägers e Sweetwater.
A dire la verità una fiera a Berlino esiste ancora: è Positions, che si svolge ormai da qualche anno negli Hangar 5 e 6 dell’ex aeroporto di Tempelhof, con circa 90 gallerie principalmente tedesche e poco note al pubblico internazionale, una fiera che non riesce mai ad attirare molti visitatori, tantomeno collezionisti.
Un altro format interessante e alternativo alla fiera tradizionale è rappresentato sicuramente dagli Uferhallen. Da almeno una decina d’anni la comunità artistica della città lotta per tenere in piedi e attivi quegli spazi che hanno contribuito a formare la peculiare identità culturale della capitale dopo la caduta del muro, fatta di associazioni artistiche e gallerie sorte dentro palazzi abbandonati e fabbriche in disuso.
È una guerra sempre più difficile e talvolta qualche battaglia viene persa, come nel caso del famoso centro culturale Tacheles oggi trasformato nell’ennesimo triste hub di uffici e hotel di lusso. Ma vale la pena combattere e negoziare, come sta accadendo appunto negli Uferhallen, un complesso che per più di cento anni ha servito la città come officina di riparazione dei mezzi di trasporto pubblico e acquistata poi da una associazione che lo ha trasformato in un centro culturale con studi d’artista e spazi di sperimentazione ed esposizione artistica.
Oggi per gli Uferhallen si paventa lo stesso destino di altre realtà simili, perché l’azionista di maggioranza intende demolirli per fare spazio ad appartamenti di lusso e uffici. É anche per questo motivo che quest’anno la Berlin Art Week ha deciso di avere una location ufficiale e di stabilirsi proprio negli Uferhallen, nel cuore della resistenza culturale berlinese.
È stato questo, quindi, il cuore di una Art Week diversa da tutte le altre simili manifestazioni europee, perché qui l’arte si manifesta certamente nelle grandi gallerie commerciali e nelle grandi istituzioni, ma vive soprattutto negli ex-bunker, nelle ex-discoteche, nelle fabbriche, cliniche, distillerie e aziende in disuso minacciate dalla gentrificazione, e qui si espone non solamente per vendere ma anche per resistere e mandare un segnale.
Gli Uferhallen, dunque, hanno aperto le porte al pubblico internazionale, diventando per una settimana la sede espositiva ufficiale della Berlin Art Week, che una sede non l’hai mai avuta. Qui hanno avuto luogo tre grandi mostre collettive con artisti emergenti tedeschi e internazionali, e un denso programma di talk, performance e workshop.
È stato, inoltre, possibile visitare i diciotto studi d’artista, tra cui quello di Monica Bonvicini, Asta Gröting e Rosa Barba.
Un altro nuovo format espositivo, nato quest’anno, è la mostra/fiera The Fairest. Organizzata da Georgie Pope e Eleonora Sutter, curatrici indipendenti, ha avuto luogo per una settimana negli spazi della Kühlhaus, ex cella frigorifera della zona depositi nell’area dell’antica Dresder Bahnhof, edificio d’architettura industriale a Gleisdreieck, tra i pochi che sono sopravvissuti alla guerra e che negli anni ha ospitato mostre collettive di vario tipo.
The Fairest, nonostante il nome, non ha le fattezze di una fiera perché i 60 artisti invitati ad esporre non sono rappresentati da gallerie. È proprio questo il concept alla base della manifestazione, che vuole invitare i collezionisti ad uscire dagli schemi e scoprire il lavoro di artisti emergenti non rappresentati, oltre a suggerire modelli alternativi di vendita che non siano esclusivamente dipendenti dalle gallerie o case d’aste.
L’estetica ancora estremamente underground della Kühlhaus contribuisce a dare a questa nuova fiera l’aspetto di una grande mostra collettiva indipendente, sicuramente affascinante, infatti qualche vendita è avvenuta – restiamo in attesa di vedere se questo format riuscirà ad avere successo anche il prossimo anno.
Accanto alle nuove manifestazioni ci sono state anche mostre organizzate da istituzioni storiche in spazi alternativi, come quella di Rachel Rossin al Teatro Anatomico Veterinario organizzata dal KW e curata da Nadim Samman, un’esperienza di realtà virtuale in un contesto storico e peculiare.
Si è poi conclusa domenica la Biennale di Berlino, che si è svolta in diverse sedi tra cui l’Hamburger Bahnhof, il KW e l’ex centrale della Stasi, un luogo denso di quella Storia che Berlino non vuole dimenticare e dove è infatti sorto il campus chiamato “Campus für Demokratie”.
Anche le gallerie d’arte pubbliche a Berlino offrono mostre a cui dedicare attenzione: sorgono in luoghi storici come la Galerie am Körnerpark a Neukölln, antica orangerie privata, o la Galerie Parterre a Prenzlauerberg. In quest’ultima ha avuto luogo la mostra “It’s brutal out here” con opere di Mary Audrey Ramirez, Lukas Liese e Zoe Claire Miller, artisti emergenti berlinesi – a conferma del fatto che agli artisti berlinesi le possibilità espositive non mancano né nel settore privato né in quello pubblico.
E lì dove mancano, se le inventano, come nel caso della mostra collettiva Remote_01 organizzata dai curatori Hannah Weidner e Tim Vormbäumen dentro un ufficio: le opere dei 21 artisti invitati convivono con la routine lavorativa e dialogano con l’arredo, che non è stato modificato.
Berlino, come sempre, insegna a reinventarsi, a trasgredire, a valutare nuove modalità che possano competere con i modelli fieristici ed espositivi tradizionali. Senza nulla togliere alle mostre presentate dalle grandi istituzioni pubbliche e private come la Berlinische Galerie, il C / O , il Gropius Bau (con un’incredibile retrospettiva su Louise Bourgeois), il Palais Populaire (sede della Deutsche Bank collection), lo Schinkel Pavilion (consigliatissime le sue nuove mostre inaugurate questa settimana – Anna Uddenberg e Jon Rafman), la Boros Collection (la cui famosa collezione è ospitata in ex bunker della Seconda Guerra Mondiale che ha mantenuto le sue fattezze architettoniche) o ancora il KINDL (museo privato nato negli incredibili spazi di una ex distilleria, come del resto la storica Kulturbrauerei), Berlino sicuramente offre uno spunto di riflessione su come sia possibile diffondere l’arte attraverso tanti e diversi canali, uscendo dalle istituzioni ed entrando nel tessuto vivo di una città.