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Curare, come atto di amore (#cura)

del

Mai stati a Urbino? Se non siete mai stati dovete andare. È una piccola città di poco più di 14mila abitanti immersa nella poesia dei paesaggi di Piero della Francesca di cui tra l’altro conserva alcune opere nella Galleria Nazionale delle Marche.

La Galleria ha sede nel palazzo ducale, iconico edificio alla cui costruzione si sono succeduti tre illustri architetti quali Maso di Bartolomeo, poi Luciano Laurana e infine Francesco di Giorgio Martini, per committenza del duca Federico da Montefeltro, condottiero e raffinato mecenate vissuto nel Millequattrocento.

Urbino ha dato i natali a Raffaello. E nel ‘900? Nel Novecento ha visto la poesia di Volponi e Bo, il segno di grandi incisori e il genio di Giancarlo De Carlo marcare tangibilmente oltre alla città la cultura italiana. E c’è dell’altro.

Una passeggiata tra le vie della “città in forma di palazzo” così come la definì nel 1528 Baldassare Castiglione nel Libro Il Cortegiano e all’interno della Galleria Nazionale va fatta.

Molti i visitatori che osservano e cercano le gesta dei cavalieri e degli artisti che soffiarono la vita e animarono la culla del Rinascimento. Un fascino e una poesia incredibili.

Ma, ripeto, c’è dell’altro.

Saltiamo avanti di alcuni secoli, proviamo a registrarci su un copione ambientato a metà Novecento, fuori imperversa la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi avanzano. In guerra si sa, succedono cose barbare, e se qualche città in quel periodo viene riconosciuta per l’importanza del suo patrimonio e dichiarata città aperta, ovvero zona franca da bombardamenti, in altri luoghi lo scenario è diverso. Idem a Urbino.

Un dubbio intorno ad un ipotetico rifugio può portare alla polverizzazione di un patrimonio di storia e cultura secolare, come accadde all’abbazia benedettina di Montecassino eretta a partire dal 529 per volere di San Benedetto e ridotta a rudere dagli Alleati; oppure può succedere che delle opere partono per non più tornare, come ci ricorda la vicenda dello storico dell’arte Rodolfo Siviero e del suo recupero delle numerose opere d’arte razziate dalla rapacità dei nazisti.

In quel clima, a Urbino, a scendere e salire le scale del palazzo ducale è un uomo senza fiato e senza sonno, il giovane storico dell’arte Pasquale Rotondi (1909-1991), Sovrintendente alle Gallerie e alle Opere d’Arte delle Marche. Un uomo di cui ci si poteva fidare, incaricato dal ministro Bottai e dall’Ispettore Argan di provvedere alla costituzione di un grande ricovero per l’ingente patrimonio nazionale nel momento in cui l’Italia fosse scesa in guerra.

Un uomo che guidato dalla passione e dalla consapevolezza di chi conosce l’autentico valore dell’arte e della sua storia riuscì a proteggere incredibili capolavori all’interno di uno e più gioielli architettonici tra i più belli al mondo.

Una vicenda questa raccontata a volte poco e spesso male che desidero ricordare in occasione del trentesimo anniversario dalla scomparsa di Rotondi – avvenuta il 2 gennaio 1991 – al fine di evidenziare alcune azioni virtuose che ritagliano in modo netto la figura di chi si occupa di cura.

Di cura dei beni culturali in questo caso e di conservazione e di valorizzazione.

Ad esser protette dalla guerra e dalle razzie arrivano opere da ogni dove, per citare solo alcuni luoghi: da Venezia il Tesoro di San Marco, le opere della Galleria dell’Accademia, dalla Ca’ d’Oro, dalle chiese e dal museo orientale; da Roma giungono dalla Galleria Borghese, dal Museo Corsini e da quello di Tarquinia e dalle più belle chiese; da Milano opere da Brera, Galleria Sforzesca e Poldi Pezzolli. Tintoretto, Giorgione, Bellini, Caravaggio, Raffaello, Mantegna, Piero della Francesca, Lotto, Crivelli, Tiziano, Rubens e tanti altri ancora.

Pasquale Rotondi fotografato nel 1940

Al rifugio del palazzo ducale di Urbino il soprintendente ne aggiunge altri, più laterali e discreti. Li sceglie in modo scrupoloso sottoponendoli uno ad uno ad un esame puntiglioso che riguarda principalmente caratteristiche relative alla sicurezza.

A tal fine gli edifici avrebbero dovuto ovviamente esser solidi, ampi, vicini ad un fiume per poter spegnere eventuali incendi, inespugnabili quindi ma nemmeno troppo lontani dalle strade principali. Controlla ponti e attività che vengono svolte dentro e nelle prossimità delle strutture e per la conservazione delle opere si reca personalmente ad aprire e areare le casse, srotolare le tele, controllarle nei dettagli.

Non solo, tiene i contatti con i soprintendenti che si occupano dei più importanti musei italiani. Ne gestisce i rapporti e i trasferimenti in clima di blocchi e controlli stradali. Provvede alla documentazione, alla catalogazione, alla collocazione e disposizione.

Quando iniziano i primi controlli delle truppe tedesche, tratta, disobbedisce, mente, organizza, intreccia rapporti diplomatici e coinvolge gli uomini di ogni estrazione sociale nel territorio, tutti insieme attorno ad un unico fine.

Con impegno assiduo e azioni multidirezionali, dal 1939 al 1944 ricovera, sposta, tutela con attenzione capillare un importante patrimonio, una piccola parte del quale tra cui la Tempesta di Giorgione, provvede a spostare dentro casa sua, o meglio, sotto il suo letto. Salva ben 7821 opere riconosciute quali pietre miliari del divenire dell’umana civiltà.

L’operazione salvataggio mette al riparo il tesoro di una nazione intera. Pasquale Rotondi protegge e custodisce non solo opere fisiche di universale bellezza ma la storia, la cultura, il messaggio che le attraversa, la visione del mondo di un popolo, le idee, l’espressione e le relazioni degli uomini.

Pasquale Rotondi cura un processo unico nel suo genere. Non ho mai pensato che il suo fosse impegno e devozione per il lavoro.

È cura. Un esempio tra i più grandi di cura. Cura è consapevolezza. Consapevolezza è conoscenza, coscienza e attribuzione di valore.

Tradotte in azioni e con la licenza di accostare le cose piccole alle grandi, cura è occuparsi con attenzione assidua e capillare di un processo generativo capace di creare valore e strutturare legami, comunità e partecipazione.

Cura può avere a che fare con un restauro, ma anche con la divulgazione e l’accessibilità al patrimonio. Cura è un’esposizione, è una campagna di raccolta fondi o che dir si voglia fundraising per la cultura, ma anche una mediazione estetica museale sviluppata con la lettura ad alta voce di un libro, un concerto, una performance, con un laboratorio di didattica dell’arte. Cura sono i meccanismi di prevenzione e tutela e lo sviluppo di tecnologie come realtà aumentata o app legate ai beni culturali.

Ed infine ma non per ultimo: cura è ricerca e studio. Insomma, curare è a tutti gli effetti un atto di amore che riguarda due o più parti di un processo.

Alice Lombardelli
Alice Lombardelli
Laureata in Storia dell'arte al Corso di Conservazione dei beni culturali dell'Università di Urbino, specializzata in didattica e divulgazione dei beni culturali, esperta in politiche culturali, lavora nel campo della valorizzazione.

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