In questa intervista, Antonio Addamiano – fondatore e direttore di Dep Art Gallery – ripercorre oltre vent’anni di attività nel mondo dell’arte, tracciando un ritratto complesso e appassionato del mestiere del gallerista. Dai primi passi nella Milano dei primi anni Duemila all’apertura della sede internazionale Dep Art Out in Valle d’Itria, Addamiano racconta una visione costruita con metodo e intuizione, fatta di archivi, mostre, fiere, libri e relazioni profonde con gli artisti.
Una conversazione che attraversa esperienze, evoluzioni del mercato, trasformazioni editoriali e scelte architettoniche, offrendoci un affresco nitido di cosa significhi oggi fare galleria con una visione culturale, umana e imprenditoriale insieme.
M.M.: Cominciamo dall’inizio. Come nasce il tuo percorso nel mondo dell’arte?
A.A.: Vengo da una famiglia in cui l’arte era parte integrante della quotidianità. Mio padre, Natale Addamiano, insegnava pittura all’Accademia di Brera ed io fin da piccolo l’ho sempre seguito ovunque: studi, fiere, mostre, viaggi in treno per l’Europa… è stato un imprinting naturale. Ma non ho mai pensato di fare il gallerista da subito. Ho iniziato da imprenditore, fondando la mia società di marketing a 18 anni, Dep Marketing, con sede in via Zanella. Poi, nel 2003, nasce, Dep Art come marchio legato alla promozione e distribuzione artistica, prima ancora che come spazio fisico, l’avevo concepito come un servizio aggiuntivo, come ampliamento della mia attività primaria.

M.M.: La galleria nasce ufficialmente nel 2006. Cosa ti ha spinto a fare questo passo?
A.A.: Dopo tre anni di esperienze itineranti – tra fiere, incontri con altri galleristi, esplorazione del tessuto italiano dell’arte contemporanea – ho sentito che era arrivato il momento. Per caso, passeggiando nella zona di corso Ventidue Marzo a Milano, vidi un cartello “affittasi” in un palazzo d’epoca in via Giuriati 9. Lo spazio era perfetto, aveva un fascino londinese, e ho capito che era da lì che volevo iniziare. Da subito ho avuto chiaro il modello: costruire una galleria altamente specializzata con un gruppo ristretto di artisti, seguiti nel tempo, come facevano i grandi galleristi storici: Fumagalli, Gastaldelli, Lorenzelli, Marconi e Gian Ferrari. Volevo un progetto serio, coerente e profondamente identitario, che mettesse l’artista al centro. Non volevo rincorrere il mercato, ma costruire qualcosa che avesse una visione. È così che nasce Galleria Dep Art.
M.M.: La tua prima mostra è stata dedicata a Mario Nigro. Perché questa scelta?
A.A.: Era una sfida personale. Da ragazzo quando vidi per la prima volta le opere di Mario Nigro non le compresi fino in fondo. Anni dopo, quella sensazione divenne una spinta: lo studiai con rigore e ne rimasi affascinato. Volevo che la prima mostra della galleria fosse una dichiarazione d’intenti, qualcosa che rappresentasse il mio approccio: studio, approfondimento, passione. Inizialmente ci furono delle resistenze da parte dell’archivio – all’epoca diretto da Germano Celant – che faticava ad accettare l’idea che un giovane gallerista inaugurasse con un artista così importante. Ma alla fine ci fu un accordo: accettai alcune condizioni, come il titolo specifico della mostra, e partimmo. Fu un inizio impegnativo ma fondamentale per definire il posizionamento della galleria.
M.M.: Poi via via hai cominciato a esporre altri artisti. Chi sono stati i primi?
A.A.: Dopo Nigro, sono arrivate le mostre di Emilio Scanavino, Salvo, Alberto Biasi e, naturalmente, mio padre Natale Addamiano. Sono stati anni fondamentali, tra il 2006 e il 2015. Mi sono ritrovato a vent’anni a lavorare fianco a fianco con tre maestri, provenienti da scuole diverse, con linguaggi distinti e carriere importanti alle spalle. Quello che mi ha colpito, e che considero ancora oggi un privilegio raro, è stato il totale rispetto reciproco tra loro. Nessuna competizione, nessuna gelosia: ognuno riconosceva il valore dell’altro. Erano artisti di una generazione precedente, autentici, e in quel periodo il mercato era molto ricettivo. Lavorare con loro è stata una scuola formidabile. Ognuno mi ha trasmesso qualcosa di unico, e ancora oggi porto avanti quei rapporti con cura e riconoscenza anche con i loro eredi ed archivi.

M.M.: Negli anni hai ampliato il tuo ruolo anche come archivista. Com’è maturata questa dimensione?
A.A.: Tutto è iniziato con Emilio Scanavino. Dopo aver approfondito la conoscenza con Giorgina Graglia, la moglie dell’artista, mi propose di lavorare in archivio. Da quel momento sono entrato in un’altra dimensione del lavoro del gallerista, più profonda e sistematica. Archiviare non significa solo catalogare: significa custodire una memoria, fare chiarezza, dare strumenti di lettura al presente e al futuro. Lavorare sugli archivi mi ha dato una prospettiva critica molto più ampia e ha rafforzato la mia convinzione che il nostro mestiere sia anche una forma di responsabilità storica.
M.M.: Come si è evoluta nel tempo la tua visione della galleria?
A.A.: Nel 2015, con il trasferimento nella nuova sede in via Comelico 40, la galleria ha vissuto una trasformazione profonda, anche simbolica. Da questo momento non la chiamo più “Galleria Dep Art”, ma “Dep Art Gallery”: una vera e propria dichiarazione di identità internazionale.
Se prima la mia priorità era promuovere artisti italiani, con questo spazio tutto è cambiato. Continuo a seguire Salvo, Biasi, Pinelli, Simeti, Addamiano, ma ho iniziato a dedicarmi all’inserimento di artisti internazionali da affiancare al gruppo storico, con l’obiettivo di rendere sempre più globale l’identità della galleria.
Questa evoluzione è nata proprio con questo spazio, un ex asilo che ho ristrutturato in sei mesi secondo criteri precisi: tutto quello che avevo annotato in dieci anni di viaggi e visite in gallerie in tutto mondo è confluito nella progettazione. Avevo delle vere e proprie “fisse”: odiavo i condizionatori a vista, i pavimenti sbagliati, le luci fredde o mal calibrate, le finestre invadenti. Volevo creare un ambiente neutro, funzionale, che rispettasse le opere e mettesse il pubblico in una condizione di ascolto visivo. Il risultato è un ambiente che non è né troppo grande né troppo piccolo, ma esattamente calibrato sulle esigenze dell’opera e dello spettatore, con scale prospettiche, doppia illuminazione con luce zenitale dai lucernari, impianti d’areazione completamente nascosti.
M.M.: Com’è arriva l’apertura internazionale?
A.A.: Ad un certo punto ho deciso di inserire in galleria anche quelli che potrei definire i miei sogni artistici: Wolfram Ullrich, Carlos Cruz-Diez, Regine Schumann, Imi Knoebel, Tony Oursler. Ho creato così una squadra internazionale, affiancando questi grandi nomi agli artisti italiani con cui ho condiviso un lungo percorso sin dagli esordi.
Poi dal 2015 al 2020 ho deciso di dedicare ogni anno una mostra a un artista che non avrei rappresentato in modo continuativo. Era un modo per valorizzare opere che ammiravo, per riempire lo spazio in modo coerente senza dover seguire necessariamente un impegno di rappresentanza esclusiva. Nasce così un progetto espositivo parallelo, sempre con il mio stile: ogni mostra era accompagnata da un catalogo curato nei minimi dettagli, non solo come documento della mostra ma anche come racconto critico di una tappa importante della carriera dell’artista. Ho organizzato così le mostre one spot di Peeters e Schoonhoven del gruppo Nul, un’esposizione su Alighiero Boetti poco dopo la sua mostra con Salvo a Lugano e una personale di Piero Fogliati.
Questa formula ha rappresentato una fase intensa e fruttuosa. Ma con l’arrivo del Covid ho sentito il bisogno di un cambiamento. Ho ridotto il numero di mostre annuali da cinque a tre e, parallelamente, ho trasformato radicalmente la produzione editoriale: non più semplici cataloghi, ma libri. Libri che raccontano non solo una mostra, ma una storia condivisa, una relazione profonda con l’artista. Ho aperto anche un nuovo spazio espositivo all’esterno della galleria, il “Grey Garage”, che si presta alla valorizzazione di piccoli nuclei di opere e ad una fruizione di lavori video.

M.M.: Come comunicate i vostri progetti?
A.A.: Ogni mostra ora è sempre accompagnata da una narrazione integrata, che parte dallo spazio fisico e si estende online. Dal 2020 ho investito ancora di più sulla comunicazione digitale, forte di un posizionamento costruito in vent’anni su tutti i social: YouTube, Instagram, LinkedIn, Facebook, Pinterest.
Lo strumento principale di divulgazione sono però i libri da noi editi. Dentro ogni libro c’è la mia storia: ad esempio, nel volume dedicato a Pinelli racconto quindici anni di lavoro insieme, attraverso mostre pubbliche, private, fiere in tutto il mondo, testi scritti e saggi d’approfondimento. Ogni pubblicazione è un documento vivo della nostra collaborazione, pensato, scritto e costruito insieme al mio staff. Oggi, questi libri rappresentano la vera anima della Dep Art Gallery.
M.M.: Dep Art Out: cos’è e come nasce?
A.A.: Dep Art Gallery ha inaugurato nel 2022 una seconda sede con una mostra personale di Wolfram Ullrich, in un luogo non convenzionale, un vero e proprio palcoscenio alternativo nella Valle d’Itria, in Puglia. Il Trullo, simbolo architettonico della regione, è diventato il cuore di questo progetto che porta la galleria fuori dal sistema tradizionale: nasce così Dep Art Out.
Cinque anni fa ho deciso di acquistare una proprietà tra Ceglie Messapica e Martina Franca; tre anni fa ho iniziato a ristrutturarla e a darle forma. Il nome “Out” è stato scelto con cura: significa fuori dal sistema, ma anche fuori dal tempo, fuori dalle logiche del mercato. È una sede che non assomiglia a nessun’altra, un luogo dove l’arte si confronta con il paesaggio, la materia, il silenzio. In questo trullo sulla collina, ogni estate ospito un mio artista ed organizzo mostre in collaborazione con altre gallerie straniere: insieme selezioniamo l’artista ospite, creando un dialogo inedito e internazionale. Così ho potuto realizzare quella che era da anni un’idea, una visione: creare alleanze, costruire collaborazioni, far dialogare linguaggi. E forse, paradossalmente, è la cosa che oggi funziona di più: un ritorno all’essenza dell’arte, in un contesto dove si può sperimentare senza pressioni.

M.M.: Quali sono oggi le principali sfide per una galleria indipendente?
A.A.: Prima di tutto, la sostenibilità economica. Gestire una galleria significa ormai anche gestire un’azienda: personale, logistica, produzione. Serve visione, ma anche grande organizzazione. Poi c’è il tema della coerenza: il sistema cambia velocemente, le mode sono aggressive, è facile farsi tentare dall’effimero. Io cerco di rimanere fedele alla mia linea fatta di pochi artisti e una grande specializzazione.
M.M.: Qual è il vostro approccio alla partecipazione alle fiere d’arte?
A.A.: Ormai da 5-6 anni Dep Art Gallery si è stabilizzata su un circuito preciso di circa dieci fiere l’anno. Non vado più a sperimentare in giro per il mondo, ma preferisco concentrarmi su aree strategiche dove sento di avere un pubblico coerente con la nostra identità. In Italia partecipiamo a tutte le fiere principali: Bologna, Roma, Verona, Milano, Torino… 5 su 5. A volte in queste fiere organizzo anche dei solo show per dare un impulso specifico a un artista, magari a ridosso di una mostra in galleria, prima o dopo, per creare attenzione e raccogliere consensi.
All’estero mi sono focalizzato sul nord Europa, in particolare su Belgio e Olanda. Partecipo da dodici anni alla fiera PAN Amsterdam e da cinque anni ad ArtBrussels. Lì abbiamo costruito un seguito solido, interessato e preparato. Da alcuni anni siamo anche presenti negli Stati Uniti, tra Expo Chicago e The Armory Show a New York: due fiere fondamentali per il nostro sviluppo internazionale.
Per qualche anno abbiamo fatto anche Cape Town. È una fiera che ci piace molto, sia per l’organizzazione che per il contesto. È uno dei nostri luoghi preferiti anche a livello personale. Quest’anno, tra l’altro, a Dep Art Out ospiteremo la galleria sudafricana, proprio di Cape Town, WHATIFTHEWORLD con l’artista Maja Marx, a seguire la Fondazione Marconi con Lucio Del Pezzo ed in ultimo, a fine agosto, la Galerie Rolando Anselmi di Roma con Valerie Krause. Questo è il mio modo di fare sistema: scegliere, approfondire, creare reti autentiche.

M.M.: Che tipo di pubblico frequenta Dep Art Gallery?
A.A.: Il mio collezionista tipo è qualcuno che è attratto dalla mia ricerca prima ancora che dalle opere. C’è chi arriva per la prima volta da Dep Art Gallery, magari dopo essersi incuriosito online o attraverso una mostra, e vuole capire se possiamo entrare in sintonia. Come accade domani con un nuovo cliente, o oggi pomeriggio con una persona che cercava un’opera di Adami da due anni: finalmente ci vediamo, ci conosciamo, parliamo.
Io ho scelto di non trattare il mercato secondario. Se qualcuno mi chiede: “Mi trovi anche un Tàpies?”, io lo indirizzo altrove, magari verso una galleria specializzata o una casa d’aste. Non mi prendo mai responsabilità su opere che non conosco direttamente. Voglio che la mia collezione diventi la collezione degli altri, ma questo può avvenire solo con opere che conosco fino in fondo, che ho seguito, archiviato, esposto.
So che molti miei colleghi lavorano anche sul secondario e fanno bene, è una scelta rispettabile. Io ho scelto invece di impiegare il mio tempo in modo diverso, nella costruzione dei libri d’approfondimento. Proprio in questi mesi stiamo ultimando il manuale su Biasi. Un lavoro enorme: abbiamo dovuto recuperare tutte le mostre internazionali, consultare tutti i precedenti cataloghi, cercare immagini inedite sui Politipi. I nostri libri sono pubblicazioni complesse, con testi critici in due lingue, immagini di mostre in musei, biennali, esposizioni storiche, e infine una sezione bibliografica con tutti i libri pubblicati sull’artista.
M.M.: Come si è evoluto il collezionismo in questi ultimi vent’anni?
A.A.: Oggi è tutto molto più prudente. I collezionisti si informano, chiedono pareri, si tutelano. Il potere d’acquisto è diminuito, il valore delle opere è cresciuto e ormai pochissimi comprano d’impulso, come si faceva una volta. Prima di acquistare, molti si rivolgono ad advisor ed esperti. Capisco questa cautela: si tratta di investimenti importanti. Però è raro ormai vedere quella scintilla negli occhi, quella concentrazione totale davanti a un quadro, quell’acquisto di pura passione.
M.M.: E con i giovani collezionisti? Riuscite ad intercettarli?
A.A.: Ne abbiamo, sì, soprattutto online. Però sono pochi. Spesso sono figli di collezionisti o persone che hanno ricevuto in eredità una casa e quindi hanno un minimo di libertà economica. Quando ho iniziato io, era diverso: i quadri costavano meno, le case costavano meno, e c’era più accessibilità anche per i giovani. Oggi è tutto più complesso, ma non impossibile: per questo continuo a investire sulla divulgazione, sui libri, sulle mostre ben curate. Voglio creare cultura e accompagnare chi è curioso, anche se non ancora collezionista.
M.M.: Cosa vedi nel futuro di Dep Art Gallery?
Continuare a costruire, senza fretta. Ho sempre lavorato con piani a tre, cinque, dieci anni. Credo nella progettualità. Continueremo con le pubblicazioni -accompagnate da video ed interviste, che sono ad oggi una testimonianza importante del lavoro svolto- con le collaborazioni internazionali e le mostre pensate con cura. Se poi un cliente, oltre a un quadro, acquista anche un nostro libro, so che sto lasciando un segno profondo, questo, per me, è il senso più profondo del mio lavoro.
