Marina Abramović è senza dubbio la performance artist più famosa al mondo. Il video pubblicato su YouTube nel 2012 da un utente italiano di nome G Mazz, nel quale l’artista incontra l’ex compagno Ulay durante la performance The Artist Is Present al MoMA – commuovendosi e rompendo il silenzio per rivolgergli alcune intime parole – ha avuto ben 18 milioni di visualizzazioni.
I dieci anni della loro relazione sentimentale combaciano con altrettanti anni di feconda collaborazione, terminata in maniera spettacolare con una performance di 90 giorni durante i quali i due hanno percorso la Grande Muraglia dagli opposti estremi per incontrarsi a metà strada e dirsi addio.
Nell’autobiografia Attraversare i muri, pubblicata da Bompiani nel 2016, emerge la minuziosità dell’artista non solo nella lunga preparazione ma anche nella documentazione delle sue performance, fotografate, filmate, trascritte in istruzioni precise per mano della stessa.
«[…] se negli anni Settanta si era creata una specie di comunità attorno alla performance art, negli anni Duemila si era completamente persa. Volevo riportare in vita quella comunità e la mia ambizione era di farlo da sola, in sette giorni di spettacolo in cui avrei rifatto performance storiche che non avevo mai visto di artisti degli anni Sessanta e Settanta, insieme a un mio lavoro dello stesso periodo.»
Con queste parole la Abramović giustifica la scelta, fatta con la serie di performance Seven Easy Pieces messa in scena nel 2005 al Guggenheim di New York, di replicare – to reenact, in inglese – alcune celebri performance di altrettanto noti artisti del passato: Bruce Nauman, Vito Acconci, Valie Export, Gina Pane, Joseph Beuys.
Riportare in vita non solo l’atto performativo in sé, quindi, ma anche ricreare in un contesto neutro come quello del museo quell’état d’esprit in seno al quale la performance è stata concepita. Un’operazione di recupero di un’opera, risemantizzata certo, ma fedele nell’esecuzione e nella filosofia.
La possibilità di replicare un atto effimero come la performance non può che avvenire grazie alla documentazione precisa e puntuale che si ha a disposizione, sulla quale avviene lo studio e la preparazione, come viene insegnato agli allievi del Marina Abramović Institute for Preservation of Performance Art.
La raccolta di documentazione fatta in questo modo permette, quindi, non solo di conservare ed archiviare un’opera che altrimenti cadrebbe nell’oblio, ma anche di metterla a disposizione di tutti per poter essere studiata ed eventualmente replicata.
La tecnologia digitale permette ormai da decenni alle scienze mediche di condividere dati utili per la ricerca e per la cura dei pazienti. Eppure, la consultazione di essi – per giusti motivi di carattere deontologico – non è aperta a tutti.
Alla luce di questo, l’artista e ingegnere informatico Salvatore Iaconesi ha lanciato nel 2012 il progetto performativo La Cura. Dopo aver scoperto di soffrire di un tumore al cervello e chiedendo di poter consultare la propria cartella clinica, ma trovandosi tra le mani un file fruibile solo dal personale sanitario, Iaconesi ha deciso di sfruttare le proprie capacità di hacker per convertire il file in un comune formato jpeg., caricarlo in rete e creare una community di discussione e confronto senza barriere.
Un’operazione di condivisione che non solo ha aiutato l’artista ha trovare uno specialista che lo curasse al meglio, ma ha anche permesso a tante persone in sofferenza di trovare conforto, consiglio e a riappropriarsi della propria umanità, sepolta sotto il freddo velo della malattia.
Nel campo della conservazione di opere d’arte mobili, spesso la documentazione soffre dello stesso problema di quella medica. A volte, però, non solo non è accessibile a chi non si occupa direttamente della conservazione, ma anche ai restauratori e ai conservatori stessi.
Come restauratore, spesso mi è capitato di non avere la possibilità di conoscere i trascorsi conservativi di un’opera, o perché la documentazione non era stata archiviata a dovere, o per una scarsa collaborazione di chi, prima di me, vi aveva messo le mani sopra.
Ciò è spesso dovuto a una sorta di “protezionismo” non collaborativo tipico della categoria.
A riguardo, riporto alla mente l’episodio del confronto tra il conte bergamasco Giovanni Secco Suardo ed il senese Ulisse Forni – autori di due manuali di restauro figli di due scuole di pensiero differenti – in occasione di un corso di aggiornamento organizzato presso il Palazzo Pitti di Firenze nel 1864. I due non solo non riuscirono a trovare un accordo metodologico, ma arrivarono quasi alle mani, con il Forni inorgoglito e il Secco Suardo costretto a rientrare in Lombardia di gran carriera.
L’esempio di piattaforme di libera condivisione di dati e documenti come Academia.edu o ResearchGate.net – sulle quali vengono caricati e sono liberamente scaricabili, paper delle più svariate materie, permettendo l’accesso e lo studio anche a chi non fa parte del ristrettissimo, elitario e a volte anche un po’ snob, cenacolo accademico – permette di pensare a un modello di condivisione anche per la documentazione riguardo a best practices conservative e allo storico di interventi sulle collezioni, a prescindere che siano pubbliche o private.
Perché ciò sia possibile, si deve pensare a uno strumento digitale che permetta simultaneamente un riordino dei dati grazie ad un’archiviazione efficace e dinamica, e la costruzione di una vera e propria community di condivisione e discussione per rendere il patrimonio davvero vivente.