Eterni viandanti di noi stessi, non esiste altro paesaggio se non quello che siamo. Così scrive Fernando Pessoa nel suo Libro dell’Inquietudine. E così, verrebbe da dire, dipinge Tullio Pericoli che da domani sarà al Palazzo dei Capitani di Ascoli Piceno con la mostra “Tullio Pericoli. Forme del Paesaggio. 1970-2018”, curata da Claudio Cerritelli e che vede esposte ben 165 opere che attraversano l’intera carriera pittorica dell’artista marchigiano. Lo abbiamo raggiunto nel suo studio di Milano.
Nicola Maggi: Lei è conosciuto in tutto il mondo per i suoi ritratti di scrittori e uomini di cultura, ma il suo cammino nell’arte inizia in realtà “ritraendo il mondo”…
Tullio Pericoli: «Quella per il paesaggio è una passione che è andata consolidandosi nel tempo. Dal momento in cui mi sono accorto che rappresentava per me un soggetto molto affascinante e interessante anche da un punto di vista di ricerca. Il paesaggio, se ci pensa bene, è qualcosa che ci forma fin dalla nascita, che ci dà un carattere, una fisionomia. In sostanza come il ritratto racconta il volto, la storia di un individuo; il paesaggio racconta la storia di una comunità, di un gruppo di individui. Eppure molto spesso non lo vediamo. Le faccio un esempio. Se noi prendiamo un bicchiere pulito di acqua e lo versiamo dentro una bottiglia e poi facciamo lo stesso versandolo in una tazza, l’acqua è la stessa, ma la forma è diversa. Però non ci si accorge di questo cambiamento perché l’acqua è dentro il contenitore. Allo stesso modo noi non ci accorgiamo di quanto il Paesaggio ci formi perché ci siamo dentro, siamo immersi nel Paesaggio. E non ne conosciamo neanche la forma se non ne usciamo e non lo guardiamo da fuori».
N.M.: Questo esempio mi richiama alla mente un episodio avvenuto nella redazione del Giorno, negli anni Sessanta, e che ha come protagonista l’allora direttore Italo Pietra…
T.P.: «Sì, è un episodio che, molto probabilmente, sta proprio all’inizio del mio interesse per il Paesaggio. E’ come se Italo Pietra mi avesse punto su un nervo molto sensibile di cui, forse, allora non sapevo neanche l’esistenza. Mi chiese se gli facevo un quadro del mio paese. E questa richiesta scatenò in me una serie di emozioni e sensazioni molto strane. Per prima cosa mi chiesi perché il direttore del giornale per cui lavoravo mi avesse fatto una richiesta del genere, che cosa sapesse di me. Subito dopo, però, mi domandai come mai io non mi ero mai fatto questa “richiesta” e mi accorsi che dentro di me, da qualche parte, c’era una sensazione molto segreta che avevo volutamente messo da parte: il ricordo del mio paese. Così partii, andai a Colli del Tronto e lo guardai, per la prima volta, da fuori, dall’esterno. Scesi, mi ricordo, sul greto del fiume e feci una foto del mio paese e lì mi accorsi per la prima volta di come era fatto. Perché non ci avevo mai pensato di guardarlo bene. Fu in quel momento che compresi cosa significava trasformare l’idea di un luogo in una forma precisa che poi potevamo chiamare paesaggio. Un paese non è un paesaggio fino a quando non lo guardiamo come tale, fino a quando non lo mettiamo all’interno di una cornice, anche solo quella dell’obiettivo della macchina fotografica. In quel momento avvenne un passaggio fondamentale…».
N.M.: Nella mostra di Ascoli saranno presenti 165 dei suoi paesaggi. Un produzione che copre quasi mezzo secolo di carriera artistica. Come è cambiato il suo paesaggio dal 1970 ad oggi?
T.P.: «Il mio paesaggio è quello dell’Italia Centrale, un paesaggio che ha ispirato tantissimi artisti fin dal 1200. Avvicinarmici è stato come quando si ha a che fare con la letteratura classica: si cerca di capirla meglio, di arricchirla. Così, dapprima, mi sono comportato come una talpa o un lombrico che lavora sottoterra, mangiando tutto lo spazio in cui si muove. Allo stesso modo, io mi sono aggirato all’interno del paesaggio per capire come era fatto sotto. Nascono così le Geologie, che aprono il percorso espositivo della mostra e che sono come delle sezioni di paesaggio. Poi, piano piano, sono riemerso e ho, per così dire, preso il volo, come un uccello, iniziando a guardare il paesaggio ora dall’alto ora da molto basso, con evoluzioni che mi permettessero di leggerne la forma superficiale conoscendone quella interna. Nei miei lavori c’è sempre questo accostamento tra il dentro e il fuori, come se il paesaggio fosse una linea aritmetica che separa un numeratore dal denominatore. Il risultato è una combinazione dei due termini e una sintesi tra quello che c’è sopra e quello che è successo sotto».
N.M.: Recentemente proprio uno dei suoi primi paesaggi, Orogenesi del 1970, ha ottenuto un importante riconoscimento anche dal mercato… con il nuovo record d’asta stabilito dal Ponte. Che effetto fa una cosa del genere ad un artista, tutto sommato, abbastanza lontano dalle logiche di mercato?
T.P.: «Lontano ma non lontanissimo. Ho un passato di pittore “di galleria”. Per 10 anni ho fatto parte della “scuderia” dello Studio Marconi assieme a Tadini, Adami… Poi, da un lato perché il mercato non sempre dà delle cose piacevoli, sa essere molto crudo, dall’altro perché avevo cominciato a lavorare con quotidiani, abbandonai tutto, non feci più mostre e il mercato che si era creato con Marconi si inaridì. A qual tempo il lavoro con le redazioni mi sembrava più vivo, con un rapporto più sincero, diretto e vero col pubblico. Anche se col tempo, dopo essere uscito dalla porta sono in realtà rientrato dalla finestra, riprendendo a fare mostre e ormai da venti anni mi dedico solo alla mia attività di pittore. Il risultato del Ponte mi ha fatto indubbiamente molto piacere, ma so anche bene che il mercato è buono, ma va gestito. Il successo di mercato dà libertà se non se ne diventa troppo dipendenti, altrimenti questa libertà viene meno».
N.M.: Lei, in più occasioni si è definito un “ladro di ispirazioni”. Quali sono stati, negli anni, i suoi riferimenti artistici principali?
T.P.: «L’arte nasce sempre da altra arte. I miei riferimenti sono tantissimi, ma se dovessi sintetizzare al massimo, i più importanti in assoluto sono due. Il primo è stato fondamentale per il disegno e per il segno: il Rembrandt delle acqueforti che io ho studiato, guardato fino quasi ad impararle a memoria, perché veramente lì c’è l’intelligenza del segno. Per la pittura, invece, l’altro artista che ho guardato e studiato tantissimo e a cui ho dedicato anche una mostra è Paul Klee. In particolare per quanto riguarda l’uso dei mezzi artistici, dalla matita al pastello alle materie inventate sulla superficie. E poi ci sarebbe un’infinità di altri artisti da citare…».
N.M.: …artisti, ma non solo… nel volume che ha dedicato ai suoi Paesaggi e pubblicato da Adelphi qualche anno fa sono riuniti anche tanti testi di autori importanti…
T.P.: «Sì, infatti ad una presentazione del libro, il prof. Giovanni Romano dell’Università di Torino mi disse: “Ho notato che tra tutte queste tue citazioni di autori non c’è neanche un critico, sono tutti scrittori, poeti o studiosi di altre materie”. Era vero, perché in realtà mi sono sempre nutrito di altre discipline, soprattutto di testi e di libri di lettura. Da un lato per fare i ritratti, dall’altro perché la lettura è sempre stata per me un nutrimento indispensabile. E quindi nella memoria mi sono rimaste più le frasi degli scrittori che non quelle dei critici».
N.M.: Ecco… Pericoli pittore e Pericoli disegnatore. Queste sue due anime, dal 1970 e dagli anni di Linus e delle sue prime mostre, hanno sempre camminato vicine… quanto si sono influenzate tra di loro?
T.P.: «Ho sempre pensato a questo mestiere del disegnare e del dipingere come ad un modo per comunicare con il mondo, per dire cosa penso io del mondo in cui vivo. E ci sono stati dei momenti in cui ho creduto di poter intervenire, col mio segno, sugli avvenimenti del mio tempo. Così, per anni, ho fatto satira politica o disegni che, in qualche modo, commentavano la vita che si svolgeva attorno a me. Successivamente le mie strade da disegnatore si sono interrotte, un po’ per noia un po’ perché, sotto sotto, non ho mai smesso di “fare il pittore”. Anche se ad un certo momento mi ero detto: “farò il pittore sui giornali”. Però la pittura, il trattare coi colori, con la forma pura, il pensare da pittore è qualcosa che non mi ha mai abbandonato. Infatti nella mostra che farò ad Ascoli si vede che dagli anni Settanta ad oggi questa vena non è mai stata abbandonata. Anche se nei momenti in cui lavoravo di più per i giornali e per i libri, questo lato della mia produzione è rimasto certamente più nascosto».