In questi giorni sta facendo la spola tra Tel Aviv e Venezia per assistere Gilad Ratman nella realizzazione del progetto che rappresenterà Israele alla prossima Biennale di Venezia. E’ Adi Gura, giovane direttrice della Braveman Gallery che, nata solo nel 2004, è una delle realtà più interessanti del Paese. Specializzata in Video Arte e Installazioni, infatti, la Braveman Gallery si configura come una vera e propria piattaforma per le arti contemporanee, costantemente impegnata nella produzione di progetti d’artista come la videoinstallazione Oasis di Ofri Cnaanidi, premiata a Barcellona in occasione di Loop 6, o Sediments, installazione realizzatadaRomy Achituv e premiata alla Biennale di Architettura di Venezia del 2008.
L’incontro con Adi, conosciuta in occasione dell’ultima edizione di Artissima, è stata così l’occasione non solo per approfondire la conoscenza del lavoro di Ratman in attesa del suo one-man-show, ma anche per fare il punto sulla scena artistica israeliana. Ne è uscita un’intervista piena di poesia da cui emergono tutte le complessità di un popolo protagonista di una delle scene internazionali più contraddittorie e calde del mondo.
Nicola Maggi: Adi, tra gli artisti che segue la vostra Galleria c’è anche Gilad Ratman che rappresenterà Israele alla 55° Biennale di Venezia. Ci puoi dire qualcosa sul suo lavoro?
Adi Gura: «I video e le installazioni di Gilad Ratman affrontano aspetti apparentemente insostenibili del comportamento umano attraverso l’esplorazione del bisogno di comunità. Un altro aspetto fondamentale delle sue opere riguarda la rappresentazione della resistenza e dei confini del sé. Spingendo la narrazione ai suoi limiti e lasciando che una catena frammentata di eventi abbia luogo, l’opera funziona come un veicolo per esplorare l’attrito tra il reale e l’immaginario. Violando la correlazione tra causa ed effetto, i video di Ratman minano la fiducia nel dispositivo cinematografico, aprendo uno spazio di coesistenza per il poetico e il patetico. In alcuni lavori, la produzione e ciò che normalmente è concepito come ‘dietro le quinte’ o ‘la realizzazione di’ sono una parte integrante dell’opera. I partecipanti non agiscono nel senso della rappresentazione, ma solo per rispondere ad una determinata situazione, spesso sulla base di restrizioni fisiche e situazioni non familiari.
Una rappresentazione della natura che gioca un ruolo importante nel lavoro di Ratman e che di solito serve come ‘capsula di Petri’ per l’interazione umana o come un atto violento, inevitabile. Questa violenza, presumibilmente, non succede solo entro i confini della cornice, ma è anche incorporata nel punto di vista e riprodotto con l’atto di guardare. Ogni opera spinge a formulare un punto di vista esterno, al fine di affrontare la formazione di un’identità, senza essere subordinato al meccanismo di identificazione degli spettatori».
N.M.: Come si colloca il lavoro di Ratman all’interno del contesto artistico contemporaneo israeliano?
A.G.: «Ratman affronta questioni che sono sia locali che internazionali. Siccome le sue installazioni sono sia familiari che sconosciute, sento che i suoi video trascendono apertamente il significante “israeliano”. Lavora nel paesaggio israeliano, ma nel suo lavoro si possono trovare diversi problemi e immagini che risuonano a livello globale. E ‘collegato a Israele anche attraverso i suoi studenti con un costante dialogo con loro e con la costante indagine del loro lavoro – insegna presso Bezalel e nella Scuola d’Arte Midrasha (dell’AMF e programmi BFA – Bachelor of Fine Arts)».
N.M.: L’Arte israeliana non è molto conosciuta in Italia. Potresti farci, sinteticamente, una panoramica storica dello sviluppo della scena artistica nel vostro paese?
A.G.. : «L’arte contemporanea israeliana non può essere spiegata nella brevità di un paragrafo, ma cercherò di illustrarla in modo molto coerente. Israele è nato come paese nel 1948 in uno scenario post-moderno di conflitto e territori in movimento. L’Arte israeliana, per definizione, è l’arte che si fa in Israele, ma si possono trovare artisti che hanno lavorato in Israele dall’inizio del XX secolo, prima della formalizzazione dello Stato. Possiamo vedere diversi problemi che hanno occupato la coscienza degli artisti israeliani nel corso degli anni: lo sfinimento del corpo e della natura, seguito dall’esodo in Israele. Dopo l’Olocausto e la devastazione umana di massa, in particolare per gli ebrei in Europa, un nuovo modo di vivere, una nuova terra e, quindi, una nuova identità è stata tanto necessaria quanto desiderata. In parole semplici, la creazione di aziende socialiste, il movimento dei kibbutz ha stabilito un nuovo modo comune di vivere insieme come identità codificata collettiva. Gli artisti israeliani hanno operato nella natura del nuovo paese, un paesaggio naturale che era selvaggio, arido ma pieno di potenzialità, di speranza».
N.M. Chi sono gli attori principali, le tendenze e le correnti che costituiscono la mappa degli autori e dei movimenti più importanti della scena artistica contemporanea israeliana?
A.G.: «L’Arte israeliana presenta oggi molti artisti e voci diverse, probabilmente a causa della crescita del mercato in generale, ma anche per le molte scuole che offrono programmi MFA e BFA che creano una miriade di artisti. Credo che oggi, nel campo della video arte, la voce che meglio rappresenta Israele sia quella di Gilad Ratman, soprattutto, ma anche quelle di Nira Pereg e Uri Nir, tra gli altri. A livello internazionale, probabilmente conosci Omer Fast, Mike Rottenberg e Yael Bartana. Il Museo di Tel Aviv, così come il Museo di Israele a Gerusalemme, stanno lavorando per esporre artisti israeliani a fianco dei loro contemporanei internazionali, per sottolineare il dialogo dell’arte moderna, ma anche per mostrare l’unico punto di vista condiviso dagli artisti israeliani che, mentre dimostrano il loro appeal globale, affrontano temi universali che li legano ai loro colleghi. Gli Spazi d’Arte no profit in Israele sono un laboratorio di grande sperimentazione: Yaffo 23, e Rothschild 69, così come tutti i Musei fuori Tel Aviv: MOBY Museum, Bat-Yam, Haifa Museum, Petach Tikva Museum e il Museo Herzelia. Un altro protagonista è il CCA (Centro per l’Arte Contemporanea) di Tel-Aviv. Il CCA è un centro che si occupa di video arte e ha un programma di curatela molto buono, così come una nuova iniziativa di residenza tipo Art Port Tel Aviv e JCVA a Gerusalemme».
N.M.: In che modo il conflitto israelo-palestinese si riflette nell’arte israeliana di oggi?
A.G.: «La gente lavora all’interno dell’ambiente in cui vive, quindi questo è qualcosa che anche se non si può vedere direttamente, esiste sempre tra le righe. Posso dire che il conflitto esiste più come una ideologia e come uno scenario personale e politico e, dal momento che l’arte è un modo per trasferire le idee, sarà sempre lì, in superficie o sotto».
N.M.: In passato la situazione era la stessa o gli artisti più giovani hanno un approccio diverso?
A.G.: «Penso che l’arte sia sempre stata un modo per criticare la propria situazione. Culturalmente, politicamente e artisticamente, la “differenza” è stata il modo di scoprire il malcontento, la malinconia e l’identità. Penso che abbiamo tanti modi di espressione, e esporre arte è oggi più facile di prima; non siamo dipendenti dalla Galleria o dal Museo, possiamo mostrare l’arte sul web o in ambiti pubblici non tradizionali, su piattaforme virtuali. Questo cambiamento rappresenta più libertà rispetto al passato».
N.M.: Un collezionista interessato ad approfondire la sua conoscenza dell’arte israeliana, dove può trovare informazioni aggiornate?
A.G.: «Venga a visitare ed esplorare!»