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La Biennale di Venezia in 5 mosse: guida essenziale per uno short break in Laguna

del

Sabato apre ufficialmente al grande pubblico la 58.a Biennale di Venezia che durerà dall’11 maggio al 24 novembre 2019 con orario 10-18, tranne il sabato (ma solo fino al 5 ottobre) in cui la chiusura è posticipata alle 20. Il fine settimana può essere quindi un buon momento per uno short break in Laguna: in due giorni, se ci si organizza bene, si può vedere quanto meno le cose più importanti di questa edizione. E l’idea di questo articolo è proprio questa: darvi qualche dritta dopo essere sopravvissuto ad una preview di tre giorni affollatissima (ma si può ancora parlare di anteprima per gli addetti?) con ore di coda per entrare nei padiglioni più importanti tra quelli ospitati ai Giardini (su quelli dell’Arsenale torneremo più avanti). Ma veniamo a noi.

 

Mossa #1: May You Live in Interesting Times

 

Quella di quest’anno è decisamente una Biennale bella e da vedere, almeno per quanto riguarda la mostra centrale che, al di là delle osservazioni fatte ieri, è certamente un’occasione, rara in Italia, per aggiornarsi sulle ultime tendenze artistiche, tra pratiche innovative – in primo luogo quelle relative all’arte digitale, vera protagonista di May You Live in Interesting Timese temi chiave della nostra società contemporanea: dalle questioni di genere ed identitarie, a quelle relative ai diritti delle minoranze e all’ambiente. Queste ultime, peraltro, centrali anche per quanto riguarda molti dei padiglioni nazionali. (Leggi -> Giovani, minoranze e campioni del mercato: ecco la 58° Biennale di Venezia)

Una mostra complessa, quella di Ralph Rugoff, attuale direttore della Hayward Gallery di Londra, che coinvolge 79 artisti, talvolta sconosciuti al grande pubblico, ma che l’impostazione scelta dal curatore dà l’opportunità di approfondire, attraverso corpus di opere ampi e, grazie alla suddivisione della mostra in due momenti uniti ma distinti, diversi tra di loro.  Sì, perché la mostra di quest’anno si costituisce, in realtà, di due mostre – Proposta A (Arsenale) e Proposta B (Giardini della Biennale) – in cui gli artisti che espongono sono gli stessi, ma con opere talvolta molto diverse tra di loro.

Un’impostazione che permette di far emergere, in modo chiaro, l’alto livello sperimentale che caratterizza la pratica degli artisti contemporanei, in grado di spaziare tra più mezzi espressivi e supporti per dare sostanza alla propria ricerca artistica che rimane, però, estremamente coerente. Peraltro, e questo è un altro grande merito di questa mostra, le opere sono sempre accompagnate da didascalie e testi che permettono a chiunque di comprendere il lavoro e la ricerca degli artisti esposti. E, altro grande merito: le opere sono praticamente tutte recentissime oltre che a firma di artisti mediamente giovanissimi. In altre parole: sono veramente contemporanee!

Se poi si guarda alla Biennale nel suo insieme, peraltro, May You Live in Interesting Times è anche un’ottima introduzione ai padiglioni nazionali che, in molti casi, sono proprio espressione di quelle ricerche che la mostra di Rugoff fotografa nel loro complesso. Per questo, le due Proposte del curatore non possono che essere, a mio avviso, la prima mossa della vostra visita. Partendo dall’Arsenale per arrivare poi ai Giardini dove concentreremo la nostra attenzione per le visite ai padiglioni.

 

Intermezzo…

 

Vista la mostra centrale, che necessita di tempo e meditazione per essere gustata e apprezzata a pieno, valutate se passare subito ai padiglioni nazionali o rimandare al giorno successivo questa parte della vostra visita. I temi sollevati da May You Live in Interesting Times sono tanti e le pratiche artistiche con cui il pubblico è chiamato a confrontarsi, come potete vedere dai due slideshow presenti in questo articolo, sono molte e complesse. E soprattutto alcune opere richiedono tempo per essere apprezzate o anche semplicemente “viste”, come nel caso di alcune video-installazioni.

Ma passiamo ai vari Padiglioni nazionali. 90 le partecipazioni di quest’anno (numero record), molte delle quali sparpagliate in varie location in giro per la città, sicuramente suggestive ma decisamente più difficili da raggiungere e se avete poco tempo, salvo interessi specifici, temo non avrete modo di vederli nei due giorni a disposizione. Noi cercheremo, nei prossimi mesi, di raccontarvi quelli più interessanti, oltre alle mostre collaterali che animano l’offerta artistica di Venezia. Per il momento ripartiamo proprio dalla zona dove siete “riemersi” dopo aver visitato la mostra centrale, i Giardini della Biennale, e andiamo a vedere i padiglioni, per così dire, imperdibili di questa edizione.

 

Mossa #2: Laure Prouvost e il Padiglione della Francia

 

La vostra visita ai padiglioni nazionali potrebbe, probabilmente, iniziare e finire qui. Il Padiglione della Francia è decisamente il più bello in assoluto di questa edizione. Mettetevi, però, l’anima in pace, perché già durante la preview, per entrare, era necessario sopportare due ore di coda… ripagate pienamente. Laure Prouvost, chiamata a rappresentare il suo Paese in questa edizione della kermesse veneziana, vi proietterà in un’esperienza unica dopo la quale, probabilmente, il vostro modo di guardare al mondo non sarà più lo stesso. E non posso che ripetere a voi il consiglio che ci dava l’assistente al padiglione al suo ingresso: “Avete fatto due ore di coda, prendetevi tutto il tempo per godervi il lavoro di Laure”.

Deep see blue surrounding you / Guarda questo blu profondo che ti circonda è un lavoro raffinatissimo, immersivo e di una forza unica. Un universo liquido e tentacolare in cui “disconnessione”, “incomprensione” e “distanza” sono le parole chiave di una riflessione dolorosa, ma non priva di ironia, sulle nozioni di generazione e di identità, su quello che ci allontana o ci lega gli uni agli altri. Il tutto con un pizzico di magia che tocca nel profondo la nostra immaginazione, con una modalità che mi ha richiamato alla mente una bellissima frase di Fernando Pessoa tratta dal suo Libro dell’inquietudine: «Mi perdo se mi incontro, dubito se trovo, non possiedo se ho ottenuto. Come se passeggiassi, dormo, ma sono sveglio. Come se dormissi, mi sveglio, e non mi appartengo. In fondo la vita è in se stessa una grande insonnia e c’è un lucido risveglio brusco in tutto quello che pensiamo e facciamo».

 

Mossa #3: Cathy Wilkes e il padiglione del Regno Unito

 

Dagli ambienti sottomarini di Laure Prouvost alla luce diffusa che circonda il delicato lavoro di Cathy Wilkes chiamata a rappresentare il Regno Unito. Nella cornice disadorna del Padiglione britannico, l’artista nord-irlandese ci conduce in un ambiente surreale dall’atmosfera diafana, composto da una serie interconnessa di installazioni scultoree, dipinti e stampe che richiamano alla memoria rituali quotidiani, alludendo contemporaneamente ai temi esistenziali al centro della stessa esistenza umana.

Frutto di un misurato processo di creazione, l’opera nasce dall’accumulo di frammenti che, visti nel loro insieme, rimandano ad interni domestici che allo stesso tempo sono luoghi intimi di ritrovo e di smarrimento. Una delicata riflessione sulla natura dell’amore e su quel confine labile che separa la vita dalla morte, su come conviviamo con la scomparsa e la smaterializzazione della vita, con l’assenza e l’anonimato dell’autore. Dopo quello francese è, a mio avviso, il padiglione più coinvolgente.

 

Mossa #4: Larissa Sansour e il Padiglione della Danimarca

 

Memoria, trauma, identità e senso di appartenenza sono le coordinate attorno a cui ruota, invece, il lavoro che Larissa Sansour ha preparato per il padiglione danese. Il suo Heirloom apre il nostro sguardo su un mondo trasferitosi sotto terra in seguito ad un disastro ecologico. Sospeso nel limbo del presente e di un futuro incerto, questo mondo sembra esistere fuori dal tempo, dallo spazio, ed essere costruito su quegli stessi fantasmi che lo infestano. Una realtà in cui vengono messe in discussione le stesse fondamenta della precaria condizione dell’essere, specialmente in contesti geograficamente contesi.

Contesti in cui concetti a noi cari come “patrimonio culturale”, “appartenenza”, “memoria” perdono completamente di significato, davanti al dramma delle distruzione, come sottolinea In Vitro, l’installazione cinematografica a due canali che compone metà dell’opera. Ma è, forse, nell’altra metà, nell’installazione multimediale Monument for The Lost Time che questa perdita di riferimenti si fa ancor più forte, nel suo essere la reificazione di quel “vuoto situato tra ciò che era e ciò che avverrà”, di cui parla la protagonista di In Vitro. Un buco nero che ci ricorda, citando questa volta Primo Levi, che «accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso».

 

Mossa #5: Bàrbara Wagner & Benjamin de Burca e il padiglione del Brasile

 

Sulla quinta tappa da proporvi per una visita di due giorni, non vi nascondo che ho avuto qualche incertezza. In lizza c’erano il padiglione del Giappone e quello della Korea, seguiti da Spagna, Finlandia, Uruguay e Nuova Zelanda (che vi consiglio comunque di visitare), ma alla fine il film Swinguerra, realizzato dal duo di artisti Bàrbara Wagner & Benjamin de Burca per il padiglione del Brasile ha “vinto”, diciamo così, perché tocca un tema un po’ disertato dagli altri padiglioni e anche dalla mostra centrale: quello delle questioni di genere, oltre che di razza (questo sì trattato in più punti della Biennale), di potere e classe. Assieme a quelle della mascolinità e del conflitto.

Tutte questioni che i due artisti affrontano in modo complesso, lasciando che la riflessione emerga dallo sfondo di un video che prende spunto dalla swingueira – movimento di ballo popolare nato nel nordest del Paese – e dalle comunità “marginali” a cui si lega, permettendo un’osservazione profonda ed empatica della cultura brasiliana contemporanea, in un momento di forti tensioni politiche e sociali. Un fenomeno i cui presupposti economici e culturali emergono prepotentemente, così come le dispute su visibilità, diritto ed auto-rappresentazione ad essi strettamente correlate e che non riguardano solo il Brasile.

 

Nicola Maggi
Nicola Maggi
Giornalista professionista e storico della critica d'arte, Nicola Maggi (n. 1975) è l'ideatore e fondatore di Collezione da Tiffany il primo blog italiano dedicato al mercato e al collezionismo d’arte contemporanea. In passato ha collaborato con varie testate di settore per le quali si è occupato di mercato dell'arte e di economia della cultura. Nel 2019 e 2020 ha collaborato al Report “Il mercato dell’arte e dei beni da collezione” di Deloitte Private. Autore di vari saggi su arte e critica in Italia tra Ottocento e Novecento, ha recentemente pubblicato la guida “Comprare arte” dedicata a chi vuole iniziare a collezionare.
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