Mentre la Torino dell’arte contemporanea è presa dalla settimana dell’arte di inizio novembre, con la consueta giostra di mille appuntamenti, la Galleria d’arte moderna e contemporanea, tra le altre iniziative, offre al pubblico l’occasione di riscoprire la collezione dell’Ottocento.
Alle opere risalenti al periodo che va dall’unità d’Italia all’inizio del 900 la GAM dedica infatti un nuovo allestimento curato dal direttore Riccardo Passo i e da Virginia Bertone e suddiviso in otto sezioni.
Si parte dalle prime opere raccolte, con Nascita di una collezione fino alle Nuove sensibilità e ricerche, cui segue una sezione dedicata alla pittura di paesaggio e altre che si concentrano sulle maggiori correnti artistiche del XXIX secolo come la Scapigliatura, il Divisionismo e il simbolismo tra pittura e scultura. A queste sezioni tematiche sono poi da aggiungere tre settori monografici dedicati ad altrettanti maestri italiani quali: Andrea Gastaldi, Antonio Fontanesi e Giacomo Grosso.
Percorrere le sale del museo osservando queste opere, per qualcuno che da sempre si occupa quasi esclusivamente di arte contemporanea, come chi scrive, è un’esperienza molto particolare proprio perché diversa da quelle a cui siamo più abituati.
La pittura e la scultura ottocentesche non posso non apparire distanti da noi per sentire e apparire. Sono frutto dell’epoca storica a cui appartengono, un’epoca per noi molto lontana sotto tutti i punti di vista e nella quale è difficile riconoscersi soprattutto, probabilmente, proprio per quanto riguarda il modo di avvicinarsi alle immagini e di leggerle come opere d’arte.
Tuttavia può capitare, come per certi testi del passato ancora più antico. Per esempio, quando leggiamo la Bibbia o i dialoghi di Platone, nonostante appartengano ad epoche ormai lontanissime da noi nel tempo e nello spazio, possiamo riconoscere ogni volta riflessioni profonde che ci sono utili nel presente, poiché appartengono a tratti di umanità universali, in cui non possiamo non riconoscerci.
Questo accade perché, anche se i testi sono sempre gli stessi, cambiano le domande che rivolgiamo loro mentre li leggiamo. Perciò, al mutare delle domande, anche le risposte scorte nel testo sono di volta in volta diverse, al cambiare delle epoche storiche, o dello sguardo di chi legge. Qualcosa del genere capita con le opere d’arte di un tempo.
Per questa ragione ci sono almeno due modi in cui possiamo attraversare le sale dedicate all’Ottocento, traendone spunti di riflessione decisamente interessanti. In primo luogo possiamo esercitare uno sguardo storico e osservare lo svolgersi di un percorso, l’emanciparsi via via di un linguaggio pittorico ed espressivo, che passa da un realismo che ai nostri occhi appare quasi ingenuo, fino alla nascita dei primi sentori delle future avanguardie storiche.
A questo modo di vistare l’allestimento va aggiunta una riflessione che nasce da un particolare che in mostra non si vede, ovvero il sorgere coevo e il diffondersi della fotografia, che via via rese la pittura qualcosa di diverso e nuovo, modificando il linguaggio pittorico dall’interno e nella sua essenza probabilmente molto più di quanto gli stessi uomini e le donne dell’Ottocento potessero immaginare.
Il secondo modo di guardare proficuamente queste opere ha a che fare invece con la curiosità di andare a cercare punti di contatto con il nostro mondo presente e il nostro modo di sentire attuale. Capita più facilmente in alcuni casi come Dopo il duello di Antonio Mancini, o L’adultera di Francesco Mosso, dove la drammaticità delle scene ritratte aiuta l’empatia da parte di chi guarda, e se da un lato fa venire in mente le opere di Puccini, se no erro proprio di quegli anni, nello stesso tempo colpisce per l’intensa drammaticità.
Tra le opere più interessanti sono da ricordare poi Lo specchio della vita di Pellizza da Volpedo ma, anche e soprattutto, l’ultima opera, che chiude il percorso espositivo. Si tratta di un dipinto intenso, dal titolo Triste madre e porta la firma di Evangelina Alciati. Alciati fu la prima donna diplomata alla Regia Accademia di Belle Arti di Torino. La sua opera colpisce per la dinamicità intrinseca, narrativa e drammatica del soggetto e del modo in cui viene ritratto. L’immagine è quella di una donna che stringe a sé un un neonato. Lo sguardo della donna è pieno di sofferenza e il suo volto appare solcato da ombre profonde, che fanno pensare a un contesto di povertà e fame.
Come in molte altre immagini esposte, emergono qui temi realisti che parlano del disagio sociale della classe più deboli, ma anche esistenziali e personali, perché racconta qualcosa della storia che ci ha preceduti e che in parte, in qualche modo, e in qualche luogo del mondo, è ancora attuale.