Quando scrolliamo le pagine dei social network o leggiamo notizie, non facciamo che esporci anche a immagini e fotografie. Da quando ciascuno di noi, poi, è diventato homo photographicus, per citare Joan Fontcuberta e il suo ‘la furia delle immagini”, è impossibile non considerare quanto i nostri occhi vengano a contatto con molte più immagini, anche involontariamente, rispetto al passato.
In futuro qualcuno si chiederà il motivo per cui, da un certo punto, siamo diventati più ingordi di immagini. E, chissà, se è a causa di questa voracità che ci siamo, a nostra volta, trasformati in compulsivi produttori di foto.
Nei nostri smartphone ammassiamo miliardi di scatti al giorno, immagini che inviamo su whatsapp o conserviamo in memoria, in attesa che altre foto prendano il posto delle vecchie. Poi per assurdo, nonostante questa forma di cupidigia, siamo inclini a lamentarci di essere “bombardati dalle immagini” e in molti ci sentiamo vittime di questa “esplosione di immagini”.
È stato leggendo “La foto mi guardava”, il libro di Katja Petrowskaja pubblicato da Adelphi e tradotto da Ada Vigliani, che mi sono reso conto che usare un linguaggio bellico, per descrivere l’inflazione d’immagini nel nostro quotidiano, sia completamente sbagliato.
Soprattutto in questi giorni (mesi e anni, in realtà), in cui le bombe vere cadono sugli ospedali in Medio Oriente e in Ucraina, la fortuna di poter osservare delle immagini, o produrle, è sinonimo di un certo tipo di pace.
Per tutti gli appassionati, e i collezionisti di foto, ma anche per chi è soltanto interessato a ragionare sul senso delle immagini nel nostro tempo, il libro di Katja Petrowskaja è un originale scoperta che modificherà l’idea che ciascuno ha sull’arte fotografica.
È dal 2015 che la scrittrice e giornalista ucraina, dopo la ripresa delle ostilità di Putin contro la sua terra di origine, ha cominciato a scrivere le sue riflessioni che venivano pubblicate ogni tre settimane, e per sette anni di fila, sul quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung.
Ciascuna delle cinquantasette ecfrasi, dal greco descrivere con eleganza, è una particolare meditazione narrativa ispirata da un’osservazione lenta di alcune foto. Queste riflessioni, come dice l’autrice, sono un argine per opporre alla violenza delle guerre la possibilità del silenzio e della bellezza che offrono alcune fotografie.
Alcuni lettori sono sicuro, approfittando del fatto che le fotografie di cui si parla sono stampate a colori nel libro (come in quei libri tradotti che presentano i testi originale a fronte), inizieranno a esercitarsi a scrivere le proprie ecfrasi facendosi ispirare dall’autrice.
Osservare è un modo di porsi
Katja Petrowskaja, di volta in volta, cerca sempre di ricostruire la storia degli scatti proposti e nelle sue riflessioni vorrebbe quasi sempre raggiungere il senso stesso del fotografare e il perché di ogni foto.
Questa raccolta di scritti è una sorta di utile prontuario di esercizi di postura nei confronti di quello che accade perché, come dice l’autrice, “osservare è un modo di porsi”. E, infatti, di foto in foto non solo si impara a guardare meglio, ma ci si esercita a ipotizzare, immaginare e trovare il proprio tempo per comprendere cosa si può nascondere in una foto o dietro di essa o a prescindere da essa.
Il titolo del libro coincide con la prima riflessione che è ispirata a “Minatore”, una foto di Yegvenoa Belorusets del 2015, esposta anni fa anche alla Biennale d’Arte di Venezia. Se all’inizio della lettura del libro è strano pensare che una foto ci possa guardare, dopo aver letto qualche capitolo si abbraccia completamente l’idea dell’autrice e non ci si stupisce più del fatto che possono esistono foto che ci invitano ad avvicinarsi ad esse e che, addirittura, possano offrirci una qualche consolazione.
Per Katja Petrowskaja le foto possono fare molte cose, anche farci interrogare su quello che non vediamo. E non è importante che siano scatti di Francesca Woodman (nel libro l’autrice scrive a proposito di “Lucy with Goose” e di “Untitled – Self-Potrait, Shells”) o di autori sconosciuti.
Così come non conta che provengano da collezioni celebri come quella dei coniugi Ruth e Peter Herzog o che ritraggano eventi storici. Nel libro ricevono la stessa attenzione sia i fotogrammi dei gesti mai celebrati, raccolti in catalogo dall’artista Natasha Nisic e poi esposti al Centre Pompidou durante il Covid, sia le foto dell’album di famiglia della Petrowskaja o scattate da lei stessa.
Una foto che non esiste
Tra tutte le cinquantasette riflessioni, in cui l’autrice riesce a tenere insieme Kiefer e Botticelli, Kafka e David Bowie, Calvino e Irving Penn, ce n’è una in particolare che scaturisce da una foto che in realtà non esiste.
Siamo nel 1968, l’anno delle immagini indimenticabili, scrive l’autrice, l’anno delle proteste contro la guerra in Vietnam, degli scioperi e delle manifestazioni studentesche in Francia. Era un tempo in cui “la gente viveva nella storia, la faceva e intanto veniva fotografata” e mentre succedeva tutto questo, in molte foto in bianco nero venivano racchiuse “l’irruenza, la giovinezza, l’energia di quell’epoca”.
Sempre nel 1968 successe che mezzo milione di soldati delle nazioni legate al Patto di Varsavia invadessero la Cecoslovacchia e grazie al fotografo Josef Koudelka, che riuscì a immortalare quello che fecero i cecoslovacchi, riuscimmo a vedere quella che è passata alla storia come la primavera di Praga e la sua repressione. “Senza le foto”, rimarca l’autrice, “certi eventi sono inimmaginabili”.
Katja Petrowskaja ha ripreso questa storia nel 2018 per raccontare quelle che successe a distanza di chilometri a Mosca. Otto persone si presentarono nella Piazza Rossa per protestare contro l’invasione. Tra quei dissidenti coraggiosi c’era la poetessa Natal’ja Gorbanevskaja che, con il figlio di tre settimane, e insieme agli altri partecipanti srotolarono i manifesti che avevano preparato con gli slogan.
Di quella manifestazione con gli otto dissidenti, che solidarizzavano con i cecoslovacchi, non esiste nemmeno una fotografia. L’unica testimonianza visiva di quell’atto è la foto al manifesto che teneva proprio Natal’ja Gorbanevskaja e su cui era scritto “Per la vostra e la nostra libertà”. Quello slogan, fotografato durante l’interrogatorio della dissidente, si trova negli archivi del KGB e fortunatamente, nonostante quella manifestazione risulti inimmaginabile senza foto, quell’atto di dissidenza, e il luogo dove si incontrarono gli otto, sono rimasti impressi nella memoria di molti sovietici e sono stati ripresi anche dalle Pussy Riot.
Un libro imperdibile / quanta vita può racchiudere una foto?
È quasi impossibile riuscire a trovare le parole giuste per scrivere dell’unicità di questo libro, pieno di considerazioni mai banali, che suggerisce quanto possa essere enzimatico guardare alle foto in maniera diversa.
Dopo aver letto questo libro sarà difficile andare ad una mostra di fotografie e non pensare al lavoro di Katja Petrowskaja. Prenderò in prestito altre parole dell’autrice, scritte a proposito della foto del 1986 “La madonna dell’Alentejo” di Christine de Grancy.
Nello scatto, in bianco nero, della fotografa austriaca si vede una donna rom che allatta suo figlio, in piedi, e sorride circondata dalla sua numerosa famiglia. A proposito di questa foto Katja Petrowskaja scrive “la simultaneità di quello che vediamo non può essere imitata in un testo scritto: il sorriso, il seno della donna, la bambina che non è più lattante, gli sguardi degli uomini. Le mani – l’oscillante dinamica dell’intero gruppo” e alla fine conclude “quanta vita può racchiudere una foto?”.
Scrivere di questo libro è lo stesso: come è difficile chiudere in una segnalazione le originali osservazioni della Petrowskaja, così sarà impossibile fare a meno di pensare, quando andremo ad una mostra o sfogliando il suo libro, a quella sensazione che le foto ci guardino.