C’è stato un tempo in cui quasi tutti noi abbiamo avuto, almeno per una volta, gli occhi rossi nelle fotografie.
Erano gli anni delle fotocamere che avevano i rullini con gli scatti limitati a 12, 24 o 36, quando il tempo tra il click e lo “sviluppo” dell’immagine, su un supporto fisico, era dilatato e non dipendeva da noi.
Oggi, invece, nessuno viene più fuori con gli occhi rossi perché esistono app per rimuovere questo ‘difetto’, e inoltre dopo lo scatto e con l’intervento di qualche filtro, le nostre foto sono pronte per essere pubblicate sui profili social o alla peggio finiscono per occupare memoria ed essere dimenticate nei nostri smartphone.
È stato alla mostra di Talia Chetrit, intitolata GUT, davanti allo scatto intitolato Face 1# (1994) che accoglie il visitatore all’ingresso, in cui si vede un’adolescente con un lecca-lecca e gli occhi rossi, che ho pensato a quanto quell’opera fotografica, non solo mi parlasse di quel tempo, così vicino e così lontano, ma che in qualche modo parlasse dei continui cambiamenti che viviamo.
Il tempo è “il materiale per eccellenza della fotografia” scrivono i due curatori, Alessandro Rabottini e Anna Castelli.
In mostra, a proposito di tempo, ci sono quasi trent’anni di scatti, dal primo più amatoriale, che è proprio Face #1, fino a Chain Clit e Breaker (Chain) del 2023 e tutte le ventotto opere fotografiche sono in continuo dialogotra momenti diversi della vita di Talia Chetrit, nata a Washington DC nel 1982, e altri della sua pratica artistica.
Un percorso che permette di vedere come l’artista americana non solo si è confrontata con la storia della fotografia ma ha portato avanti una personale e lunga riflessione sulla natura stessa del medium, anch’esso in continua evoluzione.
Tutta la mostra è un esplicito invito a riconsiderare il modo in cui guardiamo le immagini, anche quelle che ormai produciamo noi quotidianamente.
Le foto, infatti, nel loro essere “delle comunicatrici incredibili”, per usare le parole dello scrittore David Campany, possono fare diverse cose contemporaneamente.
Molti scatti, nella loro schiettezza e con i soggetti ritratti che rimandano a dinamiche famigliari e personali, sembrano provenire da un feed di uno sfrontato profilo social.
E così si potrebbe avere l’impressione che la maggior parte degli scatti parlino proprio di qualcuno che seguiamo nel quotidiano, che parlino anche di noi e della nostra contemporaneità.
Molte immagini ci mostrano quanto si può essere comodi quando ci si mette in posa (o si finge di non esserlo),quanto siamo diventati consci del dominio della rappresentazione e testimoniano il desiderio condiviso di “costringere” tanta realtà in uno scatto.
Quella stessa realtà, fatta di persone che conosciamo, di quartieri e di oggetti, che nel momento stesso in cui la inquadriamo non facciamo che romanzarla, proprio come ha fatto l’artista con le sue amiche che simulano scene del crimine, con il suo compagno che posa nudo con il loro bambino e con gli oggetti delle sue nature morte.
Alcune opere fotografiche potrebbero apparire estemporanee, e in qualche caso potrebbero esserlo, ma la forza del lavoro di questa artista è che riesce a nascondersi pur essendo molto presente, che trova ispirazione in alcuni particolari e in originali accostamenti e che riesce anche a giocare con i titoli delle sue opere.
Tutto questo non solo rimanda alle sue abilità compositive, ma fa scaturire ulteriori domande sul significato profondo dell’atto di vedere, sia da parte dell’artista che da parte di noi visitatori.
Sia gli scatti più irriverenti, che quelli poetici ed elaborati, hanno la capacità di svelare a noi osservatori la dimestichezza che abbiamo con il senso della rappresentazione degli oggetti e delle atmosfere di alcuni contesti.
Anche le foto più provocatorie, scattate in un’atmosfera ordinaria e quotidiana, stimolano interrogativi che potremmo porre a noi stessi: cosa facciamo quando ci autorappresentiamo? Cosa c’è davvero nel gesto di inquadrare? Cosa nascondiamo e cosa lasciamo vedere? Cosa vuol dire mettersi a nudo e mettere a nudo gli altri, come fa l’artista con il suo corpo e con quelli del suo compagno e di suo figlio?
E poi ancora: quali dettagli ci attirano in una foto? Perché ci piace così tanto giocare con la luce nella fotografia? Cosa unisce le cose in lontananza quando vengono catturate in una foto?
Alcune risposte sono nel testo, davvero imperdibile, di Alessandro Rabottini e Anna Castelli, altre bisognerà trovarle osservando attentamente le opere fotografiche esposte fino al 17 novembre.
Molte di esse, già nei titoli, contengono preziosi giochi di parole e tra tutte c’è Hard to title (2019), la foto che immortala un dei momenti del post-parto del figlio dell’artista. Guardandola ci si chiede: quanto può essere viscerale una foto?
*
Tranne che per “Self-potrait” (Mesh Layer) del 2019 che appartiene alla collezione della Fondazione Fiera di Milano, le altre opere in mostra vengono dalle due gallerie kaufmann repetto (Milano e New York) e Sies+Hoke (Dusseldorf.