Assortimento misto per tutti i palati: serve ordine. La settimana dell’arte è ancora una volta protagonista della primavera meneghina, consueto antipasto di Biennale di Venezia e Salone del Mobile che per il 2024 hanno preso la scellerata decisione di coincidere (folli!). L’affluenza in città a Milano è alta e lo si può verificare facilmente facendo un giro sui portali di Booking o Airbnb, che vantano prezzi triplicati rispetto alle settimane contigue.
C’è un’aria positiva nonostante la pioggia del mercoledì e le terrificanti congiunture internazionali, il clima di non remota recessione alle porte per capirsi. I grandi brand della moda e del lusso stanno subendo da alcune settimane flessioni impressionanti a causa di uno stallo del mercato asiatico, e quando le cose girano così così anche il nostro mercato dell’arte tende a risentirne.
Non la fascia alta, che come noto non conosce crisi, ma proprio quella sotto i 50.000 euro che normalmente affolla gli stand delle fiere italiane.
Per la sua ventottesima edizione anche il miart ha deciso di coincidere con un’altra fiera, il MIA Photo Fair, e chissà se è una buona cosa. Anche se allestite contigue, in zona Portello negli spazi allena MiCo. Come immaginerete, chi spende da una parte probabilmente non lo farà dall’altra. Ecco allora che forse è proprio il MIA, a mio modesto parere, che avrebbe potuto slittare prima o dopo per non mettersi in competizione con la manifestazione più forte. In ogni modo, gallerie ci sono da una parte e dall’altra.
La mia visita al MIA è stata fugace nel pomeriggio di giovedì, post inaugurazione, e a parte alcuni stand di livello, ben allestiti, come la Galleria Fumagalli con la mostra di Thorsten Brinkmann a cura di Maria Vittoria Baravelli, o ancora Vincent Peters da Glauco Cavaciuti e Sergio Roger da Spazio Nuovo, debbo ammettere che non mi sono stropicciato gli occhi. Si sente una certa mancanza di grandi maestri, presenti qua e là ma numericamente insufficienti, e anche di un fil rouge che garantisca qualità omogenea. Bene la location, ma si deve e si può fare meglio. Accettabile in mancanza d’altro, vestiti dei cugini.
Per quanto riguarda invece il main event, la direzione di Nicola Ricciardi (che nella prima edizione aveva ereditato una situazione sostanzialmente solida dal bravo Alessandro Rabottini) sembra aver trovato un suo centro, una sua abitudine che col tempo si potrà anche chiamare tradizione.
Andiamo con ordine: Portal è la nuova sezione da non perdere a cura di Abaseh Mirvali, curatrice indipendente, di Los Angeles, ospita dieci gallerie che propongono altrettante piccole mostre pensate “per scoprire o riscoprire universi e pratiche artistiche solo all’apparenza lontanissime: una finestra per guardare al presente attraverso dimensioni parallele e prismi non convenzionali”. Un incubatole insomma, un osservatorio privilegiato per provare a capire se l’arte contemporanea ha ancora la forza di interpretare presente e futuro, o se semplicemente stiamo continuando l’operazione stantia degli ultimi 20 anni in cui abbiamo barattato l’idea di sublime. Si è obbligati ad attraversarla per accedere alla fiera vera e propria, e dunque si affolla facilmente. Cenerentola vestita Gucci.
La sezione principale Estabilished ospita finalmente le gallerie di cartello, che portano opere realizzate nel corso del XX secolo, una selezione che spazia dai maestri dell’arte moderna alle produzioni nuove e recenti.
Nel moderno, va ammesso, i quadri di livello ci sono (dico quadri perché sono circa l’80% di tutto ciò che a fine fiera sarà venduto), parliamo di stand importanti allo Scudo di Verona, Tornabuoni, Voena, Cardi… Non mancano i capolavori ma resta da chiedersi, al netto di alcune cose già viste passare troppo spesso, se c’è effettivamente un mercato pronto ad accogliere vendite dai 100k in su.
Nella parte contemporanea i prezzi sono molto più morigerati, stiamo generalmente tra i 10 e i 50.000. L’altalena di Francesco Arena che campeggia nello stand di Raffaella Cortese pare sia stata venduta subito a 35.000 euro, è certamente il pezzo che più attira l’attenzione all’ingresso. Sa di infanzia felice.
Da Lia Rumma hanno portato tutti i gioielli della corona: Kentridge, Spalletti, Tosatti, Abramovich. Idem per Galeria Continua, che ha optato però una selezione meno impegnativa per il portafoglio, con Cecchini, Ozzola e Tayou. Bellissimo lo stand di Osart, tutto focalizzato sull’arte africana, ci racconta le contraddizioni della nuova borghesia. È quello che incontrate proprio per uscire quindi non si può mancare manco volendo.
Poche le straniere, non si sente parlare inglese in fiera e questo non è decisamente un bene se non stai visitando Arte Padova. Rumors parlano di una vendita da 500k da Lelong (Parigi e New York), a parte questo nella prima giornata vip (che ha accolto una discreta folla) si registrano più chiacchiere che trattative vere e proprie.
Per concludere, possiamo verificare una sostanziale coerenza con l’annata passata, ma una distanza siderale con la settimana del design che porta compratori e soldi in città, quelli veri.
Miart e Milano continuano a soffrire un certo provincialismo a cui è molto difficile sfuggire.
Sono molte e di qualità invece le mostre sparse per la città. Non c’è modo di annoiarsi, al massimo si rischia di non riuscire a vedere tutto.
Ne cito un paio, le migliori: il progetto ITALIA 70, a cura di Massimiliano Gioni per la Fondazione Nicola Trussardi, che torna ad affollare le strade di Milano con un’esplosione di immagini realizzate da 70 artisti. Era il 2004 quando, con I NUOVI MOSTRI, la Fondazione aveva disseminato dal centro alla periferia centinaia di poster realizzati da sedici giovani artisti italiani: un’antologia di sguardi sull’Italia e la sua mutevole identità che diventò un’irriverente occupazione degli spazi pubblici.
A vent’anni da quell’esperimento pionieristico la Fondazione torna a quel format coinvolgendo questa volta 70 artisti che operano in Italia, tra grandi maestri e talenti emergenti (Yuri Ancarani, Giulia Andreani, Giorgio Andreotta Calò, Rudolf Stingel, Grazia Toderi, Patrick Tuttofuoco… e moltissimi altri).
A seguire non mancate un salto ad “Abbandonare il locale”, prima mostra monografica in Italia dedicata a David Horvitz. All’interno di un ufficio dismesso nell’ambito degli spazi di BiM – zona Hangar Bicocca della Pirelli per capirci. È un ambizioso progetto di rigenerazione urbana nel distretto che sta trasformando un iconico edificio progettato da Vittorio Gregotti in una work destination all’avanguardia – Nicola Ricciardi, direttore artistico di miart, ha selezionato e allestito oltre 20 opere dell’artista americano che ripercorrono quasi 20 anni della sua carriera.
La mostra più bella di tutte in città però è quella di Dolce & Gabbana a Palazzo Reale. Curata da Florence Müller, Dal Cuore alle Mani è un progetto espositivo importante, un tributo al valore del Fatto a Mano, essenza di Dolce&Gabbana sin dalle sue origini. Una narrazione che, attraverso il sogno dell’Alta Moda, esplora le fonti di ispirazione che hanno plasmato la mente e le mani dei due fondatori.
Segnalo anche due lavori digitali pazzeschi: quello di Felice Limosani (un cubo ricoperto di Led proprio antistante l’ingresso, con mani che si stringono e lasciano) e quello di Vittorio Bonapace (uno dei pochi talenti digitali che vantiamo nelle nuove generazioni) proprio all’ingresso dello scalone del Palazzo.
La messa finisce domenica, da lunedì, tutti in Laguna.