Ho dovuto riflettere a lungo prima di scrivere sull’imperdibile mostra in onore di Osvaldo Licini a Venezia, speranza di tutti gli Italiani che ancora considerino la nostra arte visiva del ‘900 una perla fondamentale nella lunga teoria di meraviglie culturali che la nostra Patria annovera e che a volte tradisce.
La mostra, che chiuderà il prossimo 14 gennaio alla Fondazione Guggenheim, è sublime, e non mi tremano i polsi di fronte a un simile altisonante attributo: è ciò che attendevamo da almeno trent’anni (dalla mostra alla Bevilacqua La Masa, sempre a Venezia), noi, assetati di Licini, accademici, studiosi, collezionisti, galleristi, semplici amanti del genio di Monte Vidon Corrado del quale – in queste pagine, ne sono sicura – tutti sanno le arti e le virtù anche umane e politiche e come le sue lodi sono state sempre singolarmente soffocate a partire dal contestato premio biennaliero del 1958 pochi mesi prima della morte, conferito a un artista “pittore” considerato reazionario, antistorico, in controtendenza con l’arte engagée del tempo.
Proprio Licini, antistorico… lui che aveva addirittura smesso di dipingere per protesta contro la guerra e contro il fascismo (che senso poteva avere procedere nella pittura e nel proprio mondo fantastico quando tutto intorno era l’orrore?) e che poi fu sindaco del suo amato paese, retto con straordinaria attenzione verso tutti e tutto. Una vera ingiustizia che falciò anche chi non aveva mai abbracciato le sorti della dittatura e anzi l’aveva fortemente contrastata.
Ma i premi d’arte, per fortuna, non si danno per meriti politici, n’est ce pas? Così Licini, contro ogni attesa, fu finalmente premiato in quella Biennale del 1958. E il suo Castello in aria del 1933-36 riflette lo sguardo sconcertato di Peggy che cerca dietro di sé una risposta.
Un legame speciale, quindi, s’innesta fra Peggy Guggenheim e Osvaldo Licini, senza essere espresso né evidente. Ma è chiaro che se Peggy ama Klee e ne acquista Ritratto di Frau P. nel Sud del 1924 con il suo cuore in petto, forma intermedia fra cerchio e rettangolo e al contempo simbolo di élan vital, riconoscerà in Licini gli stessi cuori negli Angeli ribelli, alcuni stilemi, alcuni tratti, alcuni soggetti, persino una parte della palette di colori in comune con il “suo” tedesco. E riconoscerà certamente che in Licini l’impronta italiana, che non ha avuto vere contaminazioni con il Futurismo, ma che aspira direttamente al confronto fuor d’Italia, sin dalla sua permanenza non di prassi ma di vera sostanza a Parigi a partire dal 1917, è ben radicata, riconoscibile, inequivocabile.
L’arte di Licini è unica, perché diretta, senza mediazione, frutto della rara capacità di coniugare la perfezione tecnica e una stringente ispirazione teorica con la reazione emotiva più scontata di fronte alla bellezza. E ciò sin dalle prime mosse figurative già in nuce di stampo, per così dire, informale, che a Venezia prendono il meritato spazio affinché si capisca (un po’ come accadde per la mostra su Capogrossi sei anni fa) da dove arriva l’astrazione. Le linee degli orizzonti, delle colline e delle case, quelle del capro che guarda l’infinito, pensate e ripensate, cancellate e ripercorse, fuggono verso l’esterno del quadro e non sono costrette dentro una tavola potentemente concepita per volumi come in Carrà (che meraviglia quel Paesaggio di Valsesia del 1924 in mostra!) o nella sospensione del mistero anti-figurativo di Morandi.
A Venezia c’è tutto Licini, sino alle corde più intime e nel fulgore abbagliante della sua poetica. Espresso in tutte le chiavi del suo ricchissimo repertorio, informato di un razionalismo “classico” magistralmente confrontato con alcune prove di Fontana e Melotti (i “cavalieri dell’astrazione” della Galleria del Milione che li ospitò, prima fra tutti, nell’Italia del Ritorno all’Ordine con Gino Ghiringhelli in testa a perorarne la causa). Al punto che non si riesce a comprendere come mai, almeno sino a oggi, non sia giunto a ricoprire i podii più alti nell’Olimpo dei migliori al mondo.
Onore, quindi, a un ineguagliato Luca Massimo Barbero che, con lo staff preparatissimo del Museo, ha concepito una rassegna senza alcuna pecca, laddove la maggiore qualità del curatore (maledetta parola!) sta nella non scontata selezione, frutto di studio profondo e colto, di una tenacia e di un mestiere che ben pochi hanno in Italia. Una selezione che rende omaggio all’artista Licini, considerato centrale per l’evoluzione del Novecento italiano, benché isolato e sin troppo “unico”. La selezione è il metro per comprendere le capacità di chi costruisce una mostra: se posso permettere (e più avanti mi permetterò sin troppo) un appunto personale di chi ha seguito da vicino la genesi di questa rassegna, mi sento di dire che la selezione “è” la mostra.
Per arrivare a questa assoluta perfezione di raccolte sale susseguenti con piccoli quadri che esplodono in un finale pirotecnico, nell’assoluto rispetto del protagonista (perché non c’è mai caduta nella parabola liciniana e anche gli ultimi anni sono fecondi di meraviglie), bisogna mangiare così tanto di “pane e arte” da averne i tessuti epiteliali intrisi sino a dolersene. L’identità perfetta fra il regista e il suo primo attore trova qui un’espressione altissima della nostra Cultura più profonda. Sembra davvero che Barbero faccia parte di quella schiera di artisti che costruirono il nostro Novecento e ne segua le vere possibilità, ricordandoci quanto eravamo grandi quando eravamo più nascosti.
Ma essere nascosti, nel 2018, è suicidio. Non meritiamo questo e attendiamo dalla risposta più che lusinghiera del pubblico di questi giorni e dei molti che scrivono ora di Licini (invito tutti a leggere il simpatico pezzettino di uno storico dell’arte americano assai prevenuto nei nostri confronti, fulminato sulla via di Damasco da questa mostra di arte “modernista”, trasmessomi da Marco Rosin, il deus ex machina delle rassegne temporanee alla Guggenheim, www.nationalreview.com/2018/10/licini-modernist-mystery-in-venice/) che Licini, finalmente, spicchi il volo della notorietà planetaria.
Ci sono molte responsabilità che provocarono il presunto oblio liciniano, ma fortunatamente, benché il fido Marchiori raggiunga vette di arcana enigmaticità, il campo non è devastato dai falsi, pertanto il lavoro di fino (un nuovo catalogo ragionato, anche con il contributo degli eredi? – segnalo il sito www.osvaldolicini.it inaugurato da pochissimi giorni dal nipote Lorenzo con la madre, Silvia Poli Licini) può ancora aver luogo.
Nella Patria dei devastatori della propria Cultura, laddove ogni artista rischia di essere penalizzato irrimediabilmente dalla sua falsificazione, dal mercato sotto traccia, dall’ignoranza dei molti e dalla furbetteria dei pochi, Licini annovera un piccolo manipolo di agguerriti difensori che sostengono la sua arte, ma solo parzialmente il suo mercato. Incomprensibile dicotomia che si evince a ogni passo d’asta, a ogni scambio difficoltoso, a ogni complessa transazione.
I Licini restano ancora al palo, mentre qualcosa si sta muovendo, benché ancora non abbastanza. Io ho il mio privatissimo desiderio liciniano, e non lo confesserò. Però, e lo posso ben dire, sono stata baciata da un’Amalassunta sin da piccola, quando dormivo nella stanza dei Licini (una più che monastica camera degli ospiti) in casa dei miei nonni e mi svegliavo al mattino con gli ammiccamenti gioiosi di un Olandese volante o di un’Amalassunta col cappellino da cow-boy, mentre missili colorati trafiggevano l’aria…
E posso ben dire anche che falsificare Licini è questione oltremodo ardua.
Se voi vedeste, come io ho potuto vedere, la tela di Assaggiare del 1934-36 da vicino, con l’occhio radente e il naso che sfiora il telaio piccino, capireste quale incredibile capolavoro di maestria, con il pennello che tira il colore sino a far risaltare gli strati inferiori, fino a provocare minime semifessurazioni (pericolosissime in fase di conservazione dell’opera: si possono facilmente fratturare) perché la materia deve diventare diafana ma esistere nel contempo e far emergere il timbro.
Se voi vedeste, come vidi io, come è stato concepito il misterioso Notturno del 1932-33 con quel non-colore brunissimo che si sovrappone ad altri mille lievissimi strati bruni sino a diventare notte, e le contrapposizioni in bicromia di triangoli e minuscole semilune, nastri evanescenti, che guizzano sulla tela come salmoni controcorrente. Se voi verificaste, come potei fare io, la bravura assoluta nell’innescare un leggero supporto alla tela (al punto che talvolta le opere sembrano su carta) affinché il colore stratificato si patini sino a perdere ogni lucentezza, perché la luce viene dal quadro non dall’artificio… capireste che sofisticare Licini è pressoché impossibile, che la migliore garanzia e la miglior difesa alla sua opera è la sua arte, perfetta tecnicamente, irraggiungibile concettualmente, irripetibile poeticamente.
Ma che ancora attende, per il resto del mondo, di raggiungere le altezze siderali dove Licini si rifugia mentre dipinge.
N.B. I. Questa magnifica mostra non è – nei fatti – esportabile fuor d’Italia: molte delle opere in rassegna provengono da collezioni private e patiscono potenzialmente la “condanna” di una notifica nel momento in cui si richieda per loro il permesso di temporanea esportazione. Questo con buona pace dell’arte italiana condannata a restare dentro i suoi asfittici recintini…
N.B. II. Un Licini interessante, anche se da pulire, è in asta fra pochi giorni da Minerva Auctions a Roma (gruppo Finarte) con preview a Milano il 5, 6 e 7 novembre prossimi: mettetevi alla prova!
OSVALDO LICINI. Che un vento di follia totale mi sollevi.
Collezione Peggy Guggenheim, Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701, 30123 VENEZIA
dal 22 settembre 2018 al 14 gennaio 2019
Apertura tutti i giorni 10-18; chiusura martedi e 25 Dicembre.
Tel. +39 041 2405411