Il rapporto tra John Cage e Nam June Paik è stato di profondo affetto. Lo dimostrano i numerosi omaggi resi dall’artista coreano all’autore dei 4’33’’ di silenzio, profeta dell’imprevedibilità e di tante altre stranezze musicali dal grande fascino.
Del resto, lo spettacolo Theatre Piece N.1 messo in scena nel 1952 da Cage, Merce Cunningham e Robert Rauschenberg negli spazi della atipica scuola d’arte di Black Mountain, è un po’ il “testo sacro” che ha guidato gli artisti Fluxus, Paik compreso, tanto da essere da essi soprannominato, in maniera didascalica, The Event.
Nel 1993, a un anno dalla morte del musicista, Paik gli tributa un’opera dal poco eloquente nome Untitled (Piano), oggi conservata al MoMA di New York: ad un pianoforte verticale è applicato un marchingegno elettronico che ne governa i tasti suonando automaticamente musica jazz, mentre due telecamere riprendono i movimenti della tastiera; a coronamento di questo, quindici schermi a tubo catodico riproducono la scena, contornata da pattern psichedelici e immagini di repertorio di Cage stesso.
Dopo vent’anni di intermittente esposizione al pubblico, un’opera così eccentrica e complessa non poteva che mostrare i segni del tempo: dal malfunzionante congegno preposto alla riproduzione musicale tramite floppy disk, agli schermi a tubo catodico bruciati, l’obsolescenza della tecnologia – che una volta uscita dal mercato diventa una specie di reliquia – metteva sul piatto dei conservatori problemi tanto etici quanto pratici su come intervenire in maniera corretta.
In New Media Art e conservazione, abbiamo visto che la conservazione della nuove tecnologie applicate all’arte è ben lungi dall’avere una direzione univoca. Anche Rafael Lozano-Hemmer, autore di un vademecum rivolto ai colleghi artisti, ne è consapevole: non può esistere una sola via da seguire, esiste l’esperienza individuale di ogni artista, la sua opera, il suo contesto, il suo significato. Chi dice il contrario sbaglia; oppure, peggio, mente.
Un pensiero non lontano da quello di Jonathan Ashley-Smith, già capo del dipartimento di conservazione del Victoria & Albert di Londra, che provocatoriamente ha fatto notare come i vari codici, le carte e i manuali rilasciati dai congressi internazionali e improntati a un approccio top down – che potremmo definire di tipo verticistico -, di fatto raramente risultino utili nella quotidianità dei dipartimenti di conservazione del contemporaneo, alle prese con casi talvolta tanto singolari da richiedere scelte anche contrastanti con principi etici generici.
Ashley-Smith medita piuttosto su un approccio bottom up, introducendo il concetto di bespoke ethic, ovvero di etica “su misura”, plasmata attorno all’opera stessa, al suo significato e al significato che ad essa è attribuita da determinati gruppi di persone, gli stakeholder che nella sua conservazione hanno un interesse.
Non siamo lontani dal restauro sostenibile di Salvador Munoz-Vinas, di cui si è parlato in un vecchio articolo sui topi dell’Anacostia Community Museum di Washington.
La base di stakeholder pretende di avere voce in capitolo nel processo decisionale. Nel caso di Untitled, poi, le considerazioni etiche di per sé non conducevano a nulla, facendo della consultazione tra stakeholder l’unica via per una soluzione accettabile.
Questo perché la tendenza in vita dell’artista a lasciare intervenire piuttosto liberamente sulla sua opera, non poneva vincoli etici del tipo “rispetto dei materiali originali” o “minimo intervento”.
Ed infatti, il team guidato da Glenn Wharton optò per confrontarsi dapprima con i team di tre musei che avevano eseguito interventi su altrettante opere dell’artista: chi aveva scelto di sostituire le tecnologie rimanendo fedeli a quelle originali, chi, invece, di togliersi il dente dolente puntando sull’ammodernamento tecnologico. Da queste premesse, nessuna scelta sarebbe stata eticamente sbagliata.
L’ultima parola venne lasciata al curatore del lascito di Paik, che suggerì al museo un approccio conservativo, spingendo per il mantenimento dei tubi catodici, parere accolto dal team del MoMA che decise di salvarli in qualche modo[1].
Ad un approccio verticistico che definisce principi etici a priori, sembrerebbe contrapporsi un approccio invece basato su principi etici dettati dalla singolarità, bespoke appunto. L’idea della contrapposizione, però, non è tanto veritiera, in quanto un approccio non esclude l’altro.
È bene standardizzare se possibile: si risparmiano tempo e fatica. Ma è altrettanto bene che, di fronte alla specificità, si possa uscire dagli schemi: così facendo se ne creeranno forse di nuovi.
Avviene ciò, per esempio, quando gruppi di interesse si impegnano per la tutela di qualcosa che per loro è importante ma per le istituzioni rappresenta una singolarità difficile da inquadrare.
Abbiamo trattato del cosiddetto Caso Blu e della mostra organizzata a Bologna, vedendo come attorno ad una confusione normativa si fossero scontrati due mondi: quello “verticistico” delle istituzioni e quello dell’artista, del suo credo “street” e politicizzato e della comunità che ne condivide i valori.
Penso in generale alle forme d’arte legate alla cultura urban, se non apertamente osteggiate come vandalismo, comunque di difficile inquadramento. Non mi riferisco a quella portata nelle gallerie e nelle case d’asta, ma a quella con un approccio ancora underground. È arte? Per un gruppo di persone che ad essa attribuisce valore identificandovisi, sì. E tanto basta.
[1] Il caso studio è riportato in: Glenn Wharton, Bespoke ethics and moral casuistry in the conservation of contemporary art, 2018, Journal of the Institute of Conservation, 41:1, 58-70.