L’Italia custodisce un patrimonio di straordinario valore: reperti di interesse archeologico, storico o artistico, molti dei quali giacciono ancora nascosti nel sottosuolo o sui fondali marini, spesso risalenti al periodo delle civiltà greca, etrusca o romana. Non di rado, questi reperti riemergono all’improvviso, complice il mutamento delle condizioni del terreno o delle correnti, scavi accidentali o in seguito a campagne di recupero mirate.
Ma a chi appartengono, in concreto, tali reperti?
Per la legislazione in materia, a partire dalla Legge n. 364 del 1909, le cose di interesse culturale rinvenute nel sottosuolo o sui fondali marini sono di proprietà pubblica. Il principio, ormai consolidato, è stato ribadito nella Legge n. 1089 del 1939, trasfuso nel codice civile del 1942 e, da ultimo, organicamente sistematizzato nel decreto legislativo n. 42 del 2004 (il Codice dei beni culturali e del paesaggio) che, all’art. 91, prevede in modo inequivocabile che i reperti che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico “da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile …”.
Tale disposizione configura un acquisto a titolo originario in capo allo Stato, che opera automaticamente, prescindendo dalla volontà o dalla conoscenza del proprietario del fondo in cui avviene il ritrovamento. Il principio costituisce applicazione della centralità della funzione di tutela del patrimonio culturale, sancita dalla Costituzione (art. 9).
Corollario del principio di proprietà statale è una forte presunzione di appartenenza pubblica di ogni reperto archeologico o di interesse storico-artistico. Di conseguenza, l’onere di fornire la prova contraria (una sorta di probatio diabolica) grava interamente sul privato che ne rivendichi la titolarità che, secondo quanto consolidato in giurisprudenza, dovrà pertanto dimostrare una delle seguenti circostanze idonee a superare la presunzione: (i) l’apprensione del bene in data anteriore all’entrata in vigore della Legge n. 364/1909, che per prima ha sancito l’acquisizione statale; (ii) l’acquisto legittimo del bene a titolo di “premio di rinvenimento“, secondo le quote e le procedure previste dalle varie leggi succedutesi nel tempo (oggi disciplinate dagli artt. 92 e 93 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, come vedremo più avanti); o (iii) l’acquisto del bene tramite un’alienazione autorizzata dall’Amministrazione competente, secondo le procedure di legge.
La prova di tali circostanze deve essere fornita dal proprietario privato in modo rigoroso e documentato; non sono sufficienti mere dichiarazioni testimoniali, se non supportate da solidi riscontri documentali. La giurisprudenza è chiara in proposito. In passato, in tal senso, il Tribunale di Torino ha rigettato la domanda di restituzione di alcuni reperti, evidenziando come le testimonianze non provassero né un’apprensione anteriore al 1909, né “regolari passaggi di proprietà da parte di chi ne fosse legittimamente divenuto proprietario” in epoca antecedente (Trib. Torino, sentenza n. 5040/2019).
E in quel caso, il Tribunale ha accolto la domanda solo per i beni la cui provenienza da donazioni di privati, che li avevano rinvenuti inglobati in strutture edilizie antiche, rendeva plausibile una proprietà privata consolidatasi prima del 1909. Allo stesso modo, il Tribunale di Bologna ha sottolineato che l’onere di provare un acquisto legittimo o un possesso anteriore al 1909 ricade sempre sul privato, e la mancanza di tale prova determina l’accertamento della proprietà statale. In tale contesto, anche la presunzione di buona fede nel possesso ex art. 1147 c.c. può essere superata, specialmente in casi di acquisizioni massive e prive di documentazione giustificativa (Trib. Bologna, sentenza n. 2150/2016).
E cosa deve fare chi rinviene un reperto?
L’art. 90 del Codice dei beni culturali e del paesaggio impone precisi obblighi a chiunque, anche fortuitamente, effettui un rinvenimento. Innanzitutto, di denunciare (entro 24 ore) alla Soprintendenza, al Comune o all’autorità di pubblica sicurezza il ritrovamento; e poi di conservarlo, lasciando le cose ritrovate nelle medesime condizioni e nel luogo del ritrovamento, senza rimuoverle in mancanza di autorizzazione dell’autorità competente.
Rispettati tali obblighi, il privato può tuttavia aspirare al c.d. “premio di rinvenimento”, previsto dagli artt. 92 e 93 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che può consistere in una somma di denaro non superiore a un quarto del valore delle cose ritrovate (o alla metà, in casi specifici), oppure nel rilascio di parte dei beni stessi allo scopritore fortuito o al proprietario dell’immobile in cui sono stati rinvenuti.
In conclusione, la disciplina sui reperti rinvenuti nel sottosuolo o sui fondali marini evidenzia come la proprietà statale rappresenti la regola generale, con pochissime eccezioni ammesse e soggette a un onere probatorio particolarmente rigoroso. Si tratta di un impianto normativo che, da oltre un secolo, riafferma la funzione pubblica della tutela del patrimonio culturale, in cui l’interesse collettivo prevale inevitabilmente su quello individuale.