La nostra epoca, caratterizzata da una intricata complessità e da una dose molto bassa di certezze, è anche forse e con una certa ironia, la più propensa a risolvere questioni etiche e filosofiche in maniera manichea, sgrezzando a colpi di accetta ideologica un’interpretazione dialettica della quotidianità per cui tra il bianco e il nero vengono spesso ignorate tutte le sfumature di grigio intermedie.
Questo modo di analizzare la realtà comporta, nel caso che ci interessa trattare qui, la generica contrapposizione tra “conservazione” e “progresso”, nella quale la prima esclude il secondo, o meglio il secondo non può essere se persiste la prima e la prima è costantemente minacciata dal secondo.
Ci si professa conservatori o progressisti in politica, in economia, in etica. Le religioni stesse, al loro interno, si dividono in visioni conservatrici o progressiste spesso in lotta fra loro.
Il mondo sembra muoversi in base a questo continuo scontro che, secondo i meccanismi descritti a suo tempo da Hegel, dovrebbe portare a una sintesi, che il più delle volte, però, non arriva.
“Con-servare”, secondo il dizionario etimologico del Tommaseo, significa preservare qualcosa da alterazioni o distruzioni.
In effetti, il concetto di conservazione sembra porsi sulla difensiva: proteggiamo ciò che amiamo perché lo riteniamo – fosse anche inconsciamente – incapace di difendersi da solo, sia esso un’idea, una visione, un oggetto tangibile o intangibile.
Non vorrei banalizzare, ma nella ormai lunga querelle che anima il dibattito pubblico riguardo la conservazione del patrimonio, si ha spesso l’impressione di vedere manifestate in un eterno ritorno queste dinamiche: chi si batte per il progresso in assoluto, si contrappone alla figura del conservatore in assoluto.
Forse è solo un’impressione, e certamente le argomentazioni di entrambe le parti sono assai articolate, essendo basate su rilevanti ragioni storiche e culturali, tuttavia questo è il sentimento che traspare, ancor più, immagino, agli occhi dei non addetti ai lavori.
Al di fuori della stretta schiera di chi ha un interesse attivo nella cura del patrimonio culturale, esiste un numero non irrilevante di persone che si chiede, per esempio, come mai cantieri di importanza strategica per lo sviluppo economico e infrastrutturale del Paese vengano improvvisamente fermati per non danneggiare reperti antichi, che sarebbero tuttavia rimasti celati nel sottosuolo e perciò non valorizzabili poiché sconosciuti se non fossero partiti quei lavori edilizi.
Sono certo che ogni singolo lettore di questo blog conosca in cuor suo le ragioni – chi non ha mai preso parte a tali discussioni? Abbiamo tutti studiato tanto per arrivare a darci una risposta – ma ho cognizione di quanto diventi più complesso riuscire a spiegare tali ragioni a chi invece non ha consapevolezza della profondità e della criticità del dibattito.
Lo ammetto, è capitato anche a me di trovarmi, quasi moderno Quatremère de Quincy, a spiegare l’importanza di alcune scelte rispetto ad altre, senza ahimè il successo desiderato. Ad ogni parola vedevo non sortire alcun effetto nel mio interlocutore e mi accorgevo, con grande mestizia, di quanto anch’io cadessi nel circolo vizioso descritto all’inizio di questo articolo: o conservazione o progresso.
Se è vero che siamo in periodi di grandi cambiamenti, sarebbe dunque il caso di dare finalmente una scossa al meccanismo dialettico inceppato, di fare in modo che dalla tesi e l’antitesi scaturisca, finalmente la sintesi, che non annulli, come insegna Hegel, le due parti iniziali ma le comprenda superandole.