Se nella pittura bizantina il fondo oro è fondamentale in quanto spazio della luce, in quella italiana esso ha un valore più ornamentale. Il trionfo della prospettiva, poi, lo renderà via via obsoleto fino a farlo sparire.
Pensare alle opere d’arte come “esseri fragili” ci può aiutare a considerarle preziose e degne di maggiori attenzioni: la fragilità non deve essere percepita, infatti, come qualcosa di negativo, ma piuttosto come il presupposto per la reazione.
Percepire la fragilità in un’opera d’arte ci può dare il vantaggio di renderci più recettivi e di comprendere tempestivamente i suoi bisogni, permettendoci di trovare gli strumenti adeguati per correre ai ripari in tempo.
Ma quali potrebbero essere le fragilità di un’opera? Da dove derivano i suoi “malanni”? Esiste una classificazione delle cause alla base dei degradi delle opere d’arte che è comune per tutti i tipi di manufatti. Si possono infatti distinguere tipologie di degrado consapevole, cioè causate dall’uomo e di degrado naturale ossia provocate da fattori chimici, fisici o biologici.
I pigmenti, per la loro natura chimico-fisica e per il rapporto con il legante pittorico, possono alterarsi irrimediabilmente modificando l’aspetto originario di un dipinto. Questo è il caso della biacca, utilizzata da Cimabue negli affreschi di Assisi e virata dal bianco al nero.
La scelta dei materiali da utilizzare per il restauro di un’opera d’arte non è affatto casuale ma poggia su un fondamento teorico inspirato ai principi fondamentali del restauro che si sono delineati nella storia. Ovvero la riconoscibilità, la reversibilità e la compatibilità, il tutto nell’ottica di un minimo intervento.
Cosa comporta il rispetto di questi principi? Quali sono i vantaggi e quali le difficoltà?
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