Nel 1348, nel pieno dell’epidemia di peste nera, Vitale da Bologna lascia la città natale per cui ha già magistralmente dipinto la chiesa di Mezzaratta, per cominciare un peregrinaggio che lo porta prima a Udine e quindi nel delta del Po, a Pomposa, dove riceve il compito di affrescare le pareti della restaurata chiesa abbaziale di Santa Maria.
Il tema scelto è un classico, la cosiddetta Bibbia dei poveri, in cui alle scene della vita di Cristo si accordano episodi del popolo d’Israele e scene dell’Apocalisse. Nell’abside, una deesis con Cristo tra i dottori della Chiesa, e nella controfacciata un bellissimo Giudizio finale.
Lo stile fantastico della pittura di Vitale e dei suoi collaboratori, il segno proto-espressionista e l’ambientazione nebbiosa e padana fanno di questo ciclo di affreschi, peraltro molto bel conservato, una vera perla.
Per tutto il medioevo, assieme ad altri complessi monastici come l’influente San Colombano di Bobbio, l’Abbazia di Pomposa aveva avuto il gravoso incarico di salvare la cultura europea. Attorno al Mille, il monaco Guido detto da Arezzo, pensa di poter semplificare la lettura degli spartiti per il canto codificando una notazione ispirata a una invocazione a San Giovanni.
Ut queant laxis
resonare fibris,
Mira gestorum
famuli tuorum,
Solve polluti
labii reatum,
Sancte Iohannes.
Attorno agli anni ‘20 del Trecento, Dante Alighieri si sposta da Verona a Ravenna per offrire i suoi servigi diplomatici al signore locale Guido Novello da Polenta. In missione da qui verso Venezia, più volte trova ospitalità dai benedettini di Pomposa. Nel suo ultimo fatale viaggio, smarrito nella selva acquitrinosa del delta, contrae la malaria, facendo appena in tempo a rientrare a Ravenna per morirvi.
Rispetto al suo glorioso passato, in quegli anni Ravenna era una cittadina di rilevanza secondaria nel panorama comunale padano. Eppure, era stata capitale dell’Impero d’Occidente. In tarda epoca imperiale, infatti, la designata Mediolanum si era rivelata vulnerabile agli attacchi dei violenti eserciti germanici. Serviva una capitale che fosse dotata di una protezione naturale.
Stilicone, console e reggente in nome del giovane imperatore Orione, figlio di Teodosio, suggerisce la zona paludosa dove l’Eridano, che è il Po, scende nel mare, e dove già sorge il porto di Classe, sede scelta da Cesare per la flotta adriatica. Nel giro di pochi decenni, Ravenna è sottoposta a una ripianificazione urbanistica e monumentale che la porta a competere in bellezza con Roma.
Non è un caso che la Romagna si chiami così. Terra padana dei romani, dei goti latinizzati e dei bizantini, in contrapposizione con la Longobardia prossima e incombente.
Che sia sottoposta ad episodi alluvionali non sorprende. L’intera pianura padana è una colata alluvionale, tanto generosa quanto fragile idrogeologicamente. Nel 1152, la serie di alluvioni ed esondazioni detta rotta di Ficarolo cambia per sempre i connotati del delta, seccando il Po di Primaro, indirizzato verso Ravenna, in favore degli attuali rami più a nord, al confine col Veneto.
Nel Settecento, gli abitanti della bassa fra Bologna e Ferrara, esasperati dalle esondazioni continue del Reno, chiedono al papa loro sovrano di risolvere il problema. I genieri pontifici progettano di deviare il fiume appenninico nell’ormai morto Po di Primaro tramite un canale di trenta chilometri. L’intervento risolve parzialmente i problemi di queste zone, almeno fino al perfezionamento cinquant’anni più tardi operato da Napoleone, edificatore del Cavo scolmatore che porta il suo nome.
La pianura padana è plasmata da millenni di convivenza con l’uomo. Egli ha spesso devastato la natura (e continua a farlo), ma ha anche imparato a conoscerla e a rispettarla, sviluppando metodi di protezione e difesa del suolo, arginazione dei fiumi e dei torrenti.
Il lavoro di adattamento dell’uomo alla natura forma il paesaggio. Il codice dei beni culturali vigente dal 2004 ricorda che per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni.
Lo stesso codice, mette il paesaggio sul medesimo piano dei beni culturali come le opere d’arte e i monumenti, testimonianze aventi valore di civiltà.
È, infatti, la capacità di convivenza con una natura tanto incredibile che ha reso possibile l’epopea dell’Italia, sicuramente una delle più incredibili di tutta la storia dell’umanità.
Il paesaggio italiano, invidiato, tanto per dire, da Poussin a rappresentanza di tutti i nordeuropei, è il gran teatro nel quale si svolge la millenaria storia del nostro patrimonio nazionale.
La natura geme e spaventa con la sua irruenza, semina devastazione e morte. In Italia lo si sa bene. A volte, però, basterebbe riscoprire strumenti già esistenti per reimparare a prendersene cura.