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Sotto il cielo di un’estate italiana

del

Le calme di luglio e d’agosto sono un atmosfera favorevole per recuperare letture sospese o mai affrontate. Camera con vista di Edward Morgan Forster, per me era una di quelle fino a qualche settimana fa, libro decisamente famoso per la trasposizione cinematografica che ha lanciato l’allora giovanissima Helena Bonham Carter, oggi insignita del titolo di Commander of the Most Excellent Order of the British Empire.

Nel mondo britannico in qualche modo sopravvive una dimensione imperiale (e coloniale: non è forse il mondo anglocentrico?) che è una propaggine moderna della stessa nella quale sono immersi i personaggi del romanzo di Forster. La sua prima parte è, infatti, ambientata a Firenze nella cerchia dei cosiddetti anglobeceri, inglesi e americani che avevano praticamente colonizzato la città toscana a cavallo tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento.

Rule, Britannia! rule the waves: Britons never will be slaves.

Armati del Mornings in Florence, il diario-guida pubblicato nel 1875 da John Ruskin, molti di essi passavano buona parte del loro tempo girando per Firenze e dintorni prodigandosi in qualcosa che gli era molto congeniale, ovvero sentenziare sull’Italia e sugli italiani: “Gli italiani sono persone davvero sgradevoli. Curiosano dappertutto, e sanno cosa vogliamo prima ancora che lo sappiamo noi stessi. Siamo alla loro mercé. Nel profondo del cuore sono…così superficiali! Non hanno idea di cosa significhi vita intellettuale.”

La giovane protagonista del libro, Lucy Honeychurch, rinsavirà comunque dal torpore vittoriano proprio grazie alla permanenza in Italia e al contatto con gli italiani, liberandosi dai pregiudizi medievali, come li chiama l’autore, in favore di un personale rinascimento della coscienza. “La ristrettezza di vedute e la superficialità del turista anglosassone sono addirittura una minaccia”.

Per non essere a nostra volta sentenziosi, bisogna ricordare che tra questi “anglo”, parecchi non ebbero la superficialità di cui sopra, amando sinceramente l’Italia e lasciando in eredità a Firenze collezioni importanti come la Horne e la Stibbert, per non parlare poi di Bernard Berenson, il più fiorentino degli americani.

Mentre ero alle prese con il bel racconto di visite ai sepolcri di Santa Croce e di salite a cavallo sul colle di Fiesole, quasi per caso mi sono imbattuto in un articolo del marzo scorso, nel quale una studentessa americana raccontava del suo pessimo semestre estero trascorso proprio a Firenze, giudizio a dire il vero dovuto a fattori più soggettivi che altro.

Ho scoperto che ne era sorta pure una piccola polemica cittadina: un’americana un po’ supponente contro un’opinione pubblica un po’ permalosa.

Eppure, la studentessa racconta di essere partita con propositi molto positivi: “I imagined fun potluck dinners with my roommates, summer flings with people who called me “bella”, gelato that dripped down my fingers in the heat, and natural wine that paired effortlessly with good conversation and better prosciutto.”

Insomma, si aspettava giustamente l’Italia da cartolina resa ambita da una corposa cinematografia il cui capostipite è senza dubbio Vacanze romane. C’è una storia interessante riguardo alle riprese di questo film. Quando la produzione americana chiese all’autorità competente italiana il permesso di girare le riprese in città, si vide imporre una forte limitazione perché esse avrebbero potuto restituire un’immagine umiliante dell’Italia e dei suoi abitanti.

Era il 1952, la guerra era terminata appena sette anni prima e l’aspetto di Roma doveva essere penoso, ben lontano da quanto la fiabesca trama del film volesse fare credere. Alla fine, Vacanze romane venne girato prevalentemente negli studi di Cinecittà.

Ho l’impressione che questa sottile menzogna a fin di bene sia diventata prassi nel cercare di imporre una certa immagine di un’Italia da sogno: esclusiva, costosa, con luoghi accessibili solo a chi ha soldi da spendere. Con un minimo di sensibilità, si può percepire, a volte, visitando le città italiane, di essere cascati nella temutissima trappola per turisti. Di avere, insomma, quella sgradevole sensazione di essere polli pronti ad essere spennati.

In questa stessa, bollente estate, mi è capitato di sentire un intervento al telegiornale del rappresentante degli albergatori di una delle più celebri isole italiane. Esaltava molto il fatto che la categoria avesse lavorato duramente per richiamare un turismo esclusivo e di élite.

Mi sono chiesto perché mai un’isola verso cui la natura è stata estremamente generosa, apprezzata dagli imperatori di Roma, dai poeti e da un celebre medico svedese, non dovrebbe essere alla portata di tutti?

Probabilmente, l’ubriacatura del turismo cosiddetto di massa e cosiddetto cheap, ha fatto dimenticare che il turismo nasce come attività esclusiva di pochi, come di quegli anglobeceri raccontati da Camera con vista, danarosi, con una posizione sociale certamente molto diversa da quella dei coevi miserabili raccontati da Charles Dickens in Hard Times.

L’Italia è uno dei paesi più ambiti dai visitatori di tutto il mondo, ed è giusto che sia così. Ma è tutt’altro che cheap, spesso nemmeno alla portata degli stessi italiani, che rischiano di lasciarci uno stipendio per tre giorni nella loro stessa capitale.

Se le cose continueranno a girare così, mi pare evidente che visitare il Belpaese sarà un’attività che si potranno permettere sempre meno fortunati. Che si debba superare il concetto stesso di turismo, che è poi il nipotino di quello che facevano gli anglobeceri?

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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