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Scoperte e abbagli. La nobile scienza delle attribuzioni

del

Avrete letto o sentito della piccola Maddalena, copia di un dipinto del Perugino, attribuita di recente alla mano nientemeno che di Raffaello Sanzio, il più celebre allievo del maestro umbro.

E avrete anche letto o sentito, probabilmente, delle voci alzatesi contro tale attribuzione. Senza entrare nel merito del caso, questo dibattito suggerisce alcune riflessioni sui metodi di attribuzione di un’opera d’arte e specialmente della pittura, che è un po’ il core business del mercato dell’arte.

L’attribuzione di un dipinto a Raffaello, a Leonardo, a Caravaggio o a qualunque grande nome della storia dell’arte, fa colpo sul sentire comune perché equivale al ritrovamento della registrazione di un assolo inedito di Jimi Hendrix. C’è, insomma, una dimensione pop da non sottovalutare.

Si consideri, però, che la carriera di Hendrix come chitarrista rivoluzionario durò appena tre anni, con tre soli dischi pubblicati in vita, mentre la discografia postuma all’infausta data del 18 settembre 1970, è, invece, molto più corposa, divisa tra registrazioni di buona qualità e raffazzonamenti in cui il tocco hendrixiano lascia parecchio a desiderare.

Premesso ciò, bisogna considerare quanto sia difficile stabilire se un’attribuzione sia corretta o meno. Quella dell’attribuzione, anzi, è uno dei più complessi tra i vari mestieri della storia dell’arte. Il mestiere dell’occhio, per la precisione.

“Se lo storico dell’arte per così dire classico può accontentarsi di ricorrere, come il musicologo o lo storico della letteratura, a una ricca biblioteca e a un vasto repertorio di immagini, quello che io chiamo “occhio” ha la missione di scoprire la paternità dei dipinti solo con il suo sguardo. Il suo compito è vedere”[1].

Così Philippe Costamagna, storico dell’arte francese e grande occhio, ovvero esponente di un nobile lignaggio che ha tra i suoi antenati Bernard Berenson, Roberto Longhi e Federico Zeri.

“Gli storici dell’arte tradizionali ignorano gli occhi: ritengono il loro lavoro poco intellettuale, poco scientifico, basato più sui sensi che sulla riflessione. Così facendo, ignorano quanto vi sia di rigoroso e di scientifico in esso. Se è vero che per formulare un parere a noi bastano pochi secondi, è perché nei nostri lunghi anni di formazione abbiamo sviluppato sofisticati procedimenti di giudizio e categorizzazione che permettono al nostro occhio di riconoscere le informazioni in modo rapidissimo”.

L’occhio che intende Costamagna, quindi, non è un occhio qualunque, ma quello allenato da un metodo. Tale metodo discende, in buona misura, da quello messo a punto da Giovanni Morelli, uno dei primi grandi occhi che, nella seconda metà dell’Ottocento, mise per iscritto il frutto delle sue ricerche condotte con spirito assolutamente scientifico, in quanto Morelli, oltretutto, era un medico.

Le opere dei maestri italiani è il titolo dell’eccezionale volume in cui Morelli spiega come attribuire un dipinto concentrandosi sui dettagli più minuti come il lobo di un orecchio, la linea di un polso, la convessità di un’unghia.

Giovanni Morelli si fece una fama incredibile grazie alle attribuzioni eccezionali che fece sulle opere italiane presenti nelle gallerie della Germania. Dopo l’unificazione dell’Italia, fu coinvolto nelle prime campagne di riordino del patrimonio artistico della nazione ed ebbe modo di conoscere il giovane Bernard Berenson, suo estimatore.

Abbiamo quindi detto come il metodo dell’occhio si basi sulle capacità di cogliere dettagli unitamente alla capacità della memoria di fare accostamenti per similitudine, il tutto governato dal prodigio dell’intuito. Questo metodo, specialmente nella seconda metà del Novecento, ha trovato un alleato eccellente nelle tecniche scientifiche di diagnostica per l’arte.

“Di fronte a un mestiere così complesso, gli apporti della scienza finora si sono rivelati un elemento prezioso ma mai decisivo. La scienza può illuminare alcuni aspetti, ma non è in grado di sostituirsi all’occhio”.

Così, sempre Costamagna. Secondo lui, quindi, è vero che la scienza diagnostica è un grande ausilio, ma non può che mantenere un ruolo subordinato a quello dell’occhio.

Continua Costamagna: “A mio parere, il contributo più interessante della scienza è dato dalla riflettografia infrarossa, che ci permette di portare alla luce l’intera vita dell’opera, svelando i pentimenti, i mutamenti avvenuti nella composizione e, più in generale, tutte le esitazioni dell’artista”.

Come il bravo medico deve saper interpretare una lastra radiografica, così il bravo occhio deve saper discernere i dati fornitigli dalle tecniche diagnostiche. In altri termini, i dati che una tecnica di indagine scientifica fornisce non possono essere dati come per buoni per come si presentano, ma devono essere interpretati.

I materiali che costituiscono un’opera d’arte, e in special modo la pittura, spesso costituiscono un campo di indagine criptico, fatto di sovrapposizioni, polimerizzazioni, alterazioni, stratificazioni. I risultati forniti dalle analisi scientifiche, possono anche essere inutili se non addirittura controproducenti.

Ci sarebbero centinaia di esempi in cui un eccessivo entusiasmo nel ricorso alla scienza ha portato a grossi equivoci. Per dirne uno, riferito da Alessandro Conti[2], la Pala di Castelfranco di Giorgione, in un ciclo di analisi nel 1975, fu stabilito essere eseguita a tempera, ovvero a legante a base d’uovo, perché i dati forniti da certe indagini su campioni di pittura dicevano quello.

L’equivoco nasceva dal non sapere comprendere la differenza tra una campitura di fondo, effettivamente eseguita a tempera, e la stesura pittorica eseguita a olio, tecnica assolutamente coerente con la pittura di Giorgione e dei suoi coevi veneti.

Certo, l’esempio sopra riportato è riferito ad anni di transizione, permeati da facili entusiasmi specialmente nel campo delle scoperte artistiche e dei restauri. Oggi, la situazione è decisamente diversa, le tecniche diagnostiche si sono affinate e, in genere, c’è maggiore consapevolezza sul loro rapporto con lo studio di un’opera.

In conclusione, si potrebbe sintetizzare dicendo che non è né una questione semplice né una scienza esatta. Il mestiere dell’occhio – secondo Philippe Costamagna, tragicamente in via di estinzione – ha bisogno di metodo ma, soprattutto, di un grande buon senso.


[1] Tutte le citazioni sono tratte da Philippe Costamagna, Avventure di un occhio, Johan & Levi editore, 2017.

[2] In Alessandro Conti, Manuale di restauro, Einaudi editore, 2001.

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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