Nel 2002, il più grande cineasta russo vivente, Aleksandr Sokurov, produce quello che, a parere di chi scrive, è il suo capolavoro, Arca russa, un lungometraggio che in 99 minuti riesce nella brillante impresa di sintetizzare la storia della Grande Madre Russia, dalla brutalità fondatrice dello zar Ivan ai tempi dello sfarzo dei Romanov e del successivo cupio dissolvi sovietico, con un finale pennellato di malinconia per la speranza di una rinascita che all’epoca pareva ancora una chimera.
La responsabilità del racconto, – che si dipana lungo un unico ardito piano sequenza, – è data al sagace dialogo tra un viaggiatore francese realmente esistito, Astolphe de Custine, che rappresenta allegoricamente l’Europa, e una voce narrante fuori campo (che mi permetto di identificare con la coscienza del popolo russo).
Insieme passeggiano per i corridoi del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, incappando di sala in sala in meravigliosi tableaux vivants in costume, piccole pièce teatrali dove sono messi in scena tutti gli episodi salienti di cinquecento anni di grandezza russa.
La “russofobia”, ovvero il sentimento di pregiudizievole avversione nei confronti della Russia percepita come minaccioso nemico alle porte, è una costante della storia europea quanto l’avversione nei confronti di un’Europa dai costumi decadenti è costante della storia russa.
Si può sostenere che Sokurov, con questa opera, tenti un racconto su due registri: il primo destinato ai suoi compatrioti, l’altro al pubblico europeo, al fine di una comune comprensione dell’importanza della storia russa sia per un popolo con il bisogno di ritrovare la propria identità, sia per gli occidentali, che del grande patrimonio culturale russo (si pensi alla letteratura, all’arte, al cinema) non possono fare a meno se vogliono pensare a una piena identità europea.
Sokurov ha raccontato una storia – e l’ha fatto da vero maestro -, in cui il più importante museo russo, simbolo di un passato glorioso, ma anche di un presente di rinnovata gloria, si anima accogliendo i visitatori nelle proprie sale e offrendo loro un patrimonio vivente.
Storytelling è il termine anglofono, mutuato anche dall’italiano, con cui l’arte di raccontare è messa al servizio del marketing.
Un saggio del politologo francese Christian Salmon intitolato proprio Storytelling, pubblicato in Italia da Fazi editore, illustra i meccanismi comunicativi utilizzati dalle realtà aziendali più vincenti, passati da una narrazione di ciò che è il prodotto verso una narrazione di ciò che sta attorno al prodotto, giocando sul senso di appartenenza condiviso con i consumatori: termini come corporate values sono entrati di prepotenza nel vocabolario della comunicazione moderna, filtrando per osmosi dal marketing industriale al marketing della cultura.
Nel mio articolo Bid for the Louvre: 80mila euro per un tête-à-tête con la Gioconda, parlavo di “branding museale” e di come esso rischi di ampliare il divario tra grandi e piccole realtà, e di come certe iniziative, in questo caso l’asta organizzata da Christie’s che ha permesso al miglior offerente di assistere da vicino e in maniera esclusiva alle operazioni conservative di routine della Gioconda, creino distinzione tra un pubblico di serie A e uno di serie B.
Nell’articolo più recente, #Farvivere: a un passo da Rembrandt. L’operazione Night Watch e l’arte di conservare, l’ottima Alice Lombardelli presenta la scelta operata dal Rijksmuseum di Amsteram, che ha fatto del suo dipinto più conosciuto, la Ronda di notte di Rembrandt, un’occasione di partecipazione attiva da parte del pubblico, che ha potuto contribuire economicamente alle procedure conservative, visibili per tutta la loro durata grazie a una grande teca di protezione costruita all’interno della sala del museo: nessuna esclusività.
Se dovessimo suggerire le parole chiave alla base della strategia di storytelling del Louvre diremmo luxury, exclusive, élite, mentre per il lavoro del Rijksmuseum sarebbero più appropriate community, engagement, sustainability.
In un mondo in cui la soglia dell’attenzione media tende vertiginosamente al ribasso, rendendo difficile a molte persone immergersi nella lettura di un buon libro, raccontare il patrimonio artistico può sembrare un’impresa impossibile.
Eppure, sembra esserci riuscito ad esempio il cinema, con la serie Great Art on Screen, che da anni propone documentari avvincenti che presentato a un pubblico generalista i grandi musei del mondo o la biografia degli artisti più in voga, solitamente nelle sale per brevi periodi, due o tre giorni, giocando sull’appeal insito nell’idea di “evento esclusivo”.
Un altro successo di pubblico e di cassa sono le mostre immersive experience, pensate per una partecipazione attiva del visitatore, che può trovarsi, con l’ausilio del video mapping o della realtà virtuale, catapultato ad esempio dentro il Campo di grano con corvi di Van Gogh.
In entrambi i casi lo storytelling è avvincente, magari di scarsa qualità scientifica, ma di sicuro impatto emozionale, e anche l’occhio vuole la sua parte, si dice. La sfida dei nostri giorni, allora, deve essere quella di sposare l’emotività con la missione educativa di musei, istituti culturali, collezioni di vario genere. Una sfida a cui dovranno pensare i conservatori del futuro più prossimo.