È passato un anno esatto dai giorni in cui siam stati chiamati a rivedere le nostre abitudini di vita. Un anno, da quando ci è stato chiesto di fare un passo indietro rispetto al ritmo che conducevamo, rallentando attività, riducendo le occasioni di socializzazione, allargando gli spazi e le distanze tra le persone e autoescludendoci da quella che chiamavamo vita.
Non erano passate nemmeno troppe settimane da quei giorni, quando lo spazio liberato dalla nostra presenza è tornato a respirare di cetacei, delfini e pesci proprio in quelle acque dove ormai erano considerati scomparsi. Ieri, notizia della ricomparsa di un tappeto di bellissime stelle marine nelle rive del Kenya, esattamente ora che non ci son più turisti a far selfie con le stelle.
Prendendoci cura di noi, stiamo inconsapevolmente ma di fatto, curando il nostro pianeta. Reciprocità della cura, un concetto tanto caro a Maria Puig de la Bellacasa che scrive “ogni volta che curiamo siamo curati”. E questo vale sempre e trasversalmente in ogni campo. Invece, spesso, come sopra chiaramente dimostrato, siamo scomodi. Scomodi e devastanti.
Edward O. Wilson e Niles Eldredge, evoluzionisti ed esperti di biodiversità, lo avevano scritto più di vent’anni fa: la Sesta Estinzione di Massa è in atto e una numerosissima serie di specie animali ci sta abbandonando rendendo il pianeta Terra un posto meno sano, meno ospitale e meno bello.
La causa sarebbe da attribuire ai ritmi di crescita delle attività umane che negli ultimi secoli stanno danneggiando la biosfera. Chiamiamola pure catastrofe. L’estinzione prodotta dall’uomo oggi, che Rodolfo Dirzo su Science ha definito come “de-faunazione dell’Antropocene” non ha nulla da invidiare alle precedenti provocate dall’impatto di asteroidi o dalle super eruzioni di vulcani.
Ma di certo ha qualcosa di speciale, è la prima volta che a provocare un’estinzione di massa è una specie che abita il pianeta, una specie sola, scampata alle precedenti estinzioni ed evoluta in Homo Sapiens (nome autoassegnato e forse da rivedere).
Una ricchezza, un patrimonio, che se ne va ancora prima di essere conosciuto. Chi ha a che fare con la conservazione del patrimonio culturale ha amaramente esperienza con questo genere di cose. Bellezza, sì, ma soprattutto conoscenza, benessere, consapevolezza, tracce di vita, di storia, di evoluzione che rischiano di andarsene per sempre se non le conserviamo, curiamo e facciamo vivere.
«Prendendoci cura del patrimonio di fronte alle minacce derivanti dai conflitti, dagli impatti indesiderabili dello sviluppo o del cambiamento climatico, la scienza della conservazione ci aiuta a prenderci cura di noi stessi, promuovendo il rispetto e la fiducia degli altri, dimostrando al contempo il valore della visione a lungo termine che consente alle persone di ricostruire e guarire la loro società», scrive Lithgow.
Prendersi cura del patrimonio, dei nostri beni, del creato è attivare scambio. I frutti che ne derivano dalla reciprocità della cura e dal godimento della stessa, hanno forme plurali e stratificate, a volte imprecise, ma con notevoli ricadute di benessere per l’ambiente e il paesaggio, per la cultura e il sapere, per la salute e la società, per la politica e l’economia.
È attraverso questo tipo di cura, fermo sui concetti di reciprocità della stessa e quindi attraverso la pratica condivisa della conservazione, che David Monacchi, professore di ecoacustica e suond designer, sviluppa la sua arte. Le sue installazioni sonore sono state protagoniste di importanti musei come il Solomon R. Guggenheim di New York o hanno dialogato con opere come I dormienti di Mimmo Palladino e negli ultimi anni è sotto i riflettori con il suo progetto Fragments of Extinction.
Un progetto articolato e plurale che cerca di registrare, grazie a indagini sul campo, quanti più ritratti sonori possibili provenienti da luoghi pressoché inalterati come le foreste primarie di Amazonia, Africa e Borneo. Una corsa contro il tempo al fine di registrare la firma acustica dell’evoluzione e renderla patrimonio immateriale da conservare.
Voci di cantori, fino a 240 specie percepibili in 24 ore da un unico punto di registrazione, che animano da sempre le foreste primarie e che rischiano di scomparire. Un lavoro di sensibilizzazione e divulgazione che ha visto la realizzazione di un docufilm (qui il trailer), la pubblicazione di un libro per Mondadori e la progettazione e realizzazione di un teatro immersivo e mobile, la Sonosfera, che ricrea grazie ad avanzate tecniche di riproduzione del suono il paesaggio sonoro di registrazione.
Il tentativo di salvare dall’oblio un ecosistema che si sta sgretolando a causa della presenza dell’uomo e della sua incontrollata antropizzazione, avviene quindi sensibilizzando le persone attraverso la divulgazione, ovvero cercando attraverso meccanismi che creano accessibilità di rendere condivisibili contenuti, al fine appunto di creare consapevolezza. Quello che Monacchi chiama Saving for Knowing.
Un processo che per essere realizzato nel migliore dei modi, attraversa passaggi rigorosi di ricerca, archiviazione, evoluzione tecnica dei sistemi di registrazione, analisi dei dati, pubblicazione, condivisione, disseminazione tramite convegni e seminari e raccolta fondi.
Sotto trovate il video del suo intervento al seminario Foreste Plurali organizzato a Milano, Pirelli Hangar Bicocca, nel marzo 2020. Un approccio scientifico per la conservazione, identico a quello usato per il patrimonio culturale, che conduce alla sensibilizzazione sull’importanza di proteggere e patrimonializzare il suono di questi delicati ecosistemi della biodiversità, attraverso l’arte della cura e l’attivazione di meccanismi di reciprocità.