Il presente contributo prende spunto dall’intervento dal titolo “L’immagine delle dimore storiche. Qualche spunto di tutela” tenuto presso la Galleria Canesso di Milano il 15 giugno 2023 nell’ambito del convegno organizzato da Galerie Canesso e Associazione Dimore Storiche Italiane – Sezione Lombardia.
Ormai da molti anni le dimore storiche vengono riprodotte su riviste e quotidiani, etichette e réclame, oppure accostate a prodotti o servizi in campagne pubblicitarie o utilizzate quali immagini promozionali di un territorio o un settore (anche industriale…).
La bellezza, il fascino e l’appeal di tali magioni costituiscono, infatti, un elemento caratterizzante e qualificante di un territorio, potendo rappresentare sia un suggestivo richiamo che un elemento distintivo per diversi prodotti o servizi.
Non sempre, però, queste riproduzioni avvengono con il consenso del proprietario e/o di chi comunque dispone, a vario titolo, del bene. Anzi, per lo più i terzi si appropriano di tali immagini senza richiedere alcuna autorizzazione.
Ci si domanda tuttavia se è possibile “difendere” l’immagine di una dimora storica? E se sì, come?
Il nostro ordinamento fornisce diversi strumenti di tutela, sulla base di differenti diritti e alla luce di rispettivi presupposti; vediamo quali.
In quanto bene “vincolato” ai sensi del codice dei beni culturali (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e succ. modifiche, di seguito il “Codice”), ovvero rientrando tra i beni culturali di rilevante interesse storico-artistico tutelati dallo Stato, una dimora storica beneficia innanzitutto della tutela accordata dal Codice che, agli art. 107 e 108, demanda all’amministrazione custode del bene culturale il potere di autorizzare/concedere la riproduzione dell’immagine del bene e, se del caso, di richiedere il pagamento di un corrispettivo.
La configurazione all’interno del nostro ordinamento giuridico dell’esistenza di un “pieno ed effettivo diritto all’immagine” dei beni culturali, atteso che il bene culturale ha un “valore collettivo” individuato “nella sua destinazione ad essere fruito in modo culturalmente qualificato e gratuito da parte dell’intera collettività, secondo modalità che portino allo sviluppo della cultura ed alla promozione della conoscenza, da parte del pubblico, del patrimonio storico e artistico della Nazione” è principio più volte (soprattutto di recente) riconosciuto, da ultimo anche con sentenza del 20 aprile 2023 del Tribunale di Firenze che, in modo estremamente chiaro, ha evidenziato come, “al pari del diritto all’immagine della persona, positivizzato all’art. 10 c.c., può configurarsi un diritto all’immagine anche con riferimento ai beni culturali” e che la “intrinseca” fruizione pubblica del bene va correttamente inquadrata come “processo di conoscenza, qualificata e compiuta, di un oggetto, di una realtà che diventa parte e patrimonio della cultura singola e collettiva, mentre non costituisce pubblica fruizione qualsiasi mera occasione di pubblicità per il bene culturale” (così la sentenza citata).
Anche la riproduzione del bene culturale, quale suo uso, può avvenire pertanto solo ove sussistano i caratteri della pubblica fruizione, nei termini evidenziati; tanto è vero che non è sufficiente per la legittima riproduzione del bene culturale il pagamento (ancorché ex post) di un corrispettivo, poiché elemento imprescindibile dell’utilizzo lecito dell’immagine è il consenso reso dall’Amministrazione, all’esito di una valutazione discrezionale in ordine alla compatibilità dell’uso prospettato con la destinazione culturale ed il carattere storicoartistico del bene. In forza di tali principi recentemente sono state condannate la riproduzione non autorizzata del David di Michelangelo sulla copertina di una rivista e quella dell’Uomo Vitruviano in un puzzle[1].
La normativa prevista dal Codice non specifica tuttavia se la previsione riguardi i soli beni culturali tutelati “al chiuso” (si pensi quelli, ad esempio, all’interno di un museo) o anche quelli posti all’esterno, ed è pertanto discusso se la tutela si applichi ad entrambi oppure solo ai primi, in quanto – come evidenziato da autorevole dottrina – quelli liberamente visibili in pubblico dovrebbero essere assoggettati ad «un regime di commons puro e semplice. L’immagine di tali beni deve cioè essere considerata un bene “comune” e la sua riproduzione, quale che sia lo scopo perseguito, perfettamente libera e non vincolata ad alcuna autorizzazione preventiva, né al pagamento di qualsivoglia onere concessorio» (Resta, L’immagine dei beni, in Resta (a cura di), Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, Torino, pp. 557-558).
La formulazione del Codice si riferisce, poi, ai soli beni che sono nella disponibilità degli enti pubblici e un’analoga tutela non è prevista (anche) per i beni di proprietà dei privati. Per parte della dottrina la disciplina prevista per i beni pubblici potrebbe tuttavia essere applicata (in via analogica) anche a quelli privati, e ciò sulla base del presupposto che il Codice non opera – a livello generale – nessuna distinzione di regime giuridico in base allo stato di consegna dei beni; tale interpretazione non ha però unanime riscontro.
Nella misura in cui una dimora storica sia nuova e non banale (o meglio, creativa) sarà soggetta, quale opera dell’ingegno di carattere creativo, alla protezione accordata dalla legge sul diritto d’autore (legge 22 aprile 1941 n. 633 e succ. mod.; di seguito anche “LDA”). Disegni e opere dell’architettura sono espressamente previste dalla legge (art. 2 co. 1 n. 5 LDA) e l’inquadramento, anche in giurisprudenza, sussistendo il requisito della creatività, è pacifico (da ultimo, Cass. n. 1674/2023).La creatività presupposto della tutela autoriale deve essere intesa come il “personale apporto creativo dell’autore” (ex multis Cass. n. 25173/2011); non certo dall’idea in sé, quanto, piuttosto, dalla forma della sua espressione, sicché la medesima idea ben può essere alla base di diverse opere che si differenziano per la creatività soggettiva degli autori. Creatività che, per quanto più nello specifico rileva, può essere ravvisata anche in un progetto di trasformazione di destinazione d’uso di un immobile, purché “abbiano una chiara chiave stilistica, non dettata dall’esigenza di superare un problema tecnico” (così ad esempio Cass. 8433/2020 nel caso Kiko contro Wycon).
Secondo tale normativa, l’autore dell’opera architettonica gode quindi dei diritti, sia morali che patrimoniali, relativi all’opera, tra cui il diritto di sfruttare economicamente in tutto in parte la dimora, anche tramite riproduzioni fotografiche[2], e non vederla attribuita ad altri autori e/o posta in contesti che possano pregiudicare l’onore e la reputazione dell’autore. Se i diritti morali sono imprescrittibili, quelli patrimoniali perdurano per i successivi 70 anni dalla morte dell’autore, come per quasi tutte le opere dell’ingegno tutelate[3]. Il proprietario della dimora, tuttavia, pur nella proprietà / possesso della casa, non acquisisce in quanto proprietario/possessore tout court tali diritti di sfruttamento economico in mancanza di specifica cessione dei relativi diritti da parte dell’autore, in quanto l’art. 109 LDA prevede espressamente che “La cessione di uno o più esemplari dell’opera non importa, salvo patto contrario, la trasmissione dei diritti di utilizzazione, regolati da questa legge” (cessione peraltro che, se discussa, andrà inoltre provata tra le parti per iscritto).
Salvo il caso di dimore abbastanza “recenti”, ovvero progettate da architetti viventi o deceduti da non più di settant’anni, e per le quali il proprietario si sia fatto cedere dall’autore/architetto anche i diritti di riproduzione, sarà quindi abbastanza difficile che quest’ultimo possa ricorrere alla tutela prevista dalla legge sul diritto d’autore per tali diritti. Quanto invece ai diritti morali, sebbene non soggetti ad alcuna limitazione temporale questi diritti sono inalienabili e irrinunciabili, cioè permangono in capo all’autore e possono essere esercitati indipendentemente dai diritti patrimoniali derivanti dalla creazione dell’opera e anche nel caso in cui questi ultimi siano stati ceduti a terzi; alla morte dell’autore potranno essere esercitati dai discendenti nonché, se sussistono in tal senso finalità pubbliche, anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri[4].
La riproduzione fotografica di una dimora, o meglio con essa dei suoi abitanti, potrebbe inoltre integrare una violazione del diritto alla vita privata e delle garanzie poste a tutela della riservatezza e inviolabilità del domicilio (protetto dall’art. 14 della Costituzione)e, al contempo, dei capisaldi della normativa in materia di protezione dei dati personali finalizzata a garantire e tutelare i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche. Come ha avuto modo di precisare il Garante privacy in una nota questione che vedeva come protagonista un famoso politico “È illecito riprendere e diffondere immagini di persone all’interno di una privata dimora senza il loro consenso e utilizzando tecniche particolarmente invasive” (“Fotografie riprese all’interno di luogo di dimora privata: divieto di diffusione”, 18 giugno 2009, doc. web n. 623306). Partendo da tale assunto generale, volto a evitare che le persone in situazioni ordinarie di vita privata o di socializzazione e svago nel contesto “domestico” vengano disturbate e, quindi, violate della propria serenità e libertà, occorrerà attentamente valutare, caso per caso, le circostanze. In ogni caso, tali foto, in mancanza di un’esplicita autorizzazione, non potrebbero essere diffuse e pubblicate[5].
La riproduzione di tutta o parte della dimora può certamente essere registrata e/o usata come marchio, beneficiando così della specifica tutela prevista dal codice della proprietà industriale (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e succ. modifiche; di seguito anche “CPI”).
I requisiti minimi inderogabili per la registrazione del marchio sono la sua capacità distintiva, la sua rappresentabilità in modo chiaro nel registro (art. 7 CPI) e la sua liceità e non decettività (art. 14, co. 1, lett. a e b CPI); inoltre, il marchio deve essere caratterizzato da novità (art. 12 CPI) e non deve violare l’altrui diritto d’autore, di proprietà industriale o un altro diritto esclusivo di terzo (art. 14, co. 1, lett. c CPI)[6].
La registrazione conferisce al titolare del marchio la facoltà di fare uso esclusivo del marchio e il diritto di vietare a terzi di utilizzare nell’attività economica un segno identico al marchio registrato per prodotti o servizi identici, un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi identici o affini, qualora vi sia rischio di confusione per il pubblico, e l’uso del segno identico o simile al marchio registrato rinomato anche nel caso di prodotti o servizi non affini, qualora tale utilizzo crei un indebito vantaggio dovuto alla rinomanza o rechi un pregiudizio al legittimo titolare (art 20 CPI).
Nel caso di marchi complessi, ovvero costituito da più elementi figurativi e/o denominativi, il “cuore” del marchio che costituisce l’elemento di raffronto con gli altri marchi è la parte o le parti distintiva/e del segno. La durata della protezione è di dieci anni dalla data di presentazione della domanda e risulta prorogabile per ulteriori periodi di dieci anni (art. 15 e 16 CPI). Di norma il diritto di marchio decade se il marchio non viene usato per un periodo di cinque anni o se il segno è divenuto comune per identificare i servizi o prodotti contraddistinti. Registrazioni che abbiano ad oggetto una dimora rischiano tuttavia di essere troppo complesse e proteggere solo una prospettiva.
I marchi non registrati, ma di fatto utilizzati, sono tutelati in base all’articolo 12 co. 4 CPI. La fattispecie costitutiva del marchio di fatto è l’acquisizione di una notorietà sul territorio nazionale tramite un uso effettivo del segno, che comporti la concreta possibilità per il mercato di riferimento di associare tale marchio a un determinato prodotto. I requisiti di validità del marchio di fatto coincidono con quelli previsti per il marchio registrato; l’esistenza di un marchio di fatto con notorietà generale inficia inoltre la notorietà del marchio identico o similare che sia registrato successivamente per prodotti identici o affini, rappresentando una causa di nullità per quest’ultimo (artt. 12, co. 1 lett. a e 25 lett. a CPI). Al contrario, un marchio che sia utilizzato puramente a livello locale o con modalità tali da non comportane la notorietà, non preclude la possibilità di registrare un marchio successivo valido e non fa sorgere in capo al titolare un diritto esclusivo, ma solo il diritto di continuarne l’uso limitatamente all’ambito locale in cui tale marchio si sia diffuso.
Arduo in ogni caso trarre delle conclusioni univoche. La riproduzione da parte di terzi senza la necessaria autorizzazione potrebbe costituire – sussistendone le condizioni – violazione di una o più delle una delle norme sopra richiamate. O di nessuna.
[1] Per un esame più approfondito su tali pronunce si veda: “Ordinanza contro l’uso illecito dell’immagine del David di Michelangelo” su Artribune (www.artribune.com/professioni-e-professionisti/diritto/2017/12/ordinanza-contro-luso-illecito-dellimmagine-del-david-di-michelangelo-il-parere-dellavvocato/) e “No, Ravensburger non può vendere il puzzle con l’Uomo Vitruviano senza permesso (e senza pagare i diritti)” su Brand-News (brand-news.it/blog/insight/no-ravensburger-non-puo-vendere-il-puzzle-con-luomo-vitruviano-senza-permesso-e-senza-pagare-i-diritti/).
[2] La tutale prevista dalla legge sul diritto d’autore non vieta la fotografia della dimora per finalità personali (oltre che per scopi di ricerca e studio e altre ipotesi eccezionali previste dalla legge stessa), nel cui caso la riproduzione è sempre lecita. È invece sicuramente discusso – e discutibile – se il nostro ordinamento preveda un più generale (e generico) diritto, spettante a chiunque, di fotografare beni collocati in luoghi pubblici, in particolare monumenti ed opere dell’architettura contemporanea (il c.d. “diritto di panorama”). Secondo il Ministero dei Beni Culturali, nella risposta data a suo tempo ad un’interrogazione parlamentare sul punto (interrogazione alla Camera n. 4/05031, risposta scritta del 19 febbraio 2008), “la libertà di panorama […] è riconosciuta in Italia per il noto principio secondo il quale il comportamento che non è vietato da una norma deve considerarsi lecito”; con la conseguenza che, al contrario di quanto previsto in altri ordinamenti, “in Italia, non essendo prevista una disciplina specifica, deve ritenersi lecito e quindi possibile fotografare liberamente tutte le opere visibili, dal nuovo edificio dell’Ara Pacis al Colosseo, per qualunque scopo anche commerciale salvo che, modificando o alterando il soggetto, non si arrivi ad offenderne il decoro ed i valori che esso esprime”. La risposta data dal Ministero ha suscitato tuttavia alcune critiche e ancora oggi si discute se il nostro ordinamento preveda o meno tale libertà.
[3] La particolarità delle opere architettoniche è che queste ultime subiscono un’importante deroga al diritto morale d’autore: infatti, secondo quanto previsto dall’art. 20 c. 2 LDA, l’autore non può opporsi alle modificazioni che si rendessero necessarie nel corso della realizzazione (e a quelle successive).
[4] Peraltro, generalmente, i proprietari della dimora non sono l’autore o i discendenti dello stesso e, pertanto, il più delle volte non sussisterebbe, in capo ai proprietari, alcuna legittimazione ad agire per la tutela di tali diritti.
[5] Una possibile soluzione – ma comunque da analizzare concretamente in base alla situazione effettivamente fotografata e purché non vengano integrate fattispecie penalmente rilevanti, come l’interferenza illecita nella vita privata ex art. 615 bis c.p. – potrebbe essere quella di pixellare il volto o oscurarlo, così da non rendere identificabili i soggetti raffigurati. Tuttavia, trattandosi di una questione assai delicata è sempre preferibile agire con estrema cautela, in quanto è possibile che, in alcune situazioni, tali “tecnicismi” possano non essere sufficienti per tutelare il soggetto ripreso.
[6] Vi sono inoltre dei limiti alla registrazione come marchio di ritratti di terzi, nomi di persona diversi da quelli di colui che chiede la registrazione e di nomi e segni notori (art. 8 CPI).